Santi da giovani #1: san Giovanni Bosco (prima parte)


In molti si sono cimentati a parlare dei Santi e dei candidati agli altari giovani, ossia quelli morti nella fascia d’età tra i 18 e i 25-30 anni. Quasi nessuno, però, si è interessato d’indagare come fossero in gioventù quelli che, invece, sono deceduti in età molto più avanzata. Nell’anno del Sinodo dei Vescovi su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», ho deciso d’intraprendere questa strada quasi inesplorata, con una nuova rubrica.
La prima figura che ho scelto di trattare è una scelta quasi scontata: oggi infatti la Chiesa ricorda san Giovanni Bosco, ritenuto quasi per eccellenza il Santo dei giovani. È anche il centotrentesimo anniversario esatto dal suo passaggio da questo mondo al Padre. Ecco quindi il mio tentativo di dare uno sguardo agli anni che hanno contribuito a renderlo un uomo e un sacerdote riuscito, immaginando che sia lui stesso a raccontarli.
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su questa pagina, ma ho pensato di snellirlo, di dividerlo in due parti e, magari, d’inserire qualche immagine, per alleggerire la lettura. Le immagini sono tutte tratte dalla Banca Dati delle immagini salesiane. 

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Se mi chiedessero come sono stati gli anni della mia giovinezza, non avrei timore di affermare che sono stati fondamentali. Durante quel tempo, ho imparato tanti insegnamenti che mi sarebbero risultati utili in un secondo momento. Penso che facessero parte di quel “tutto” che avrei compreso a suo tempo, come mi disse quella Signora che vidi, a nove anni, nel sogno che mi cambiò la vita.

Un carattere facilmente irritabile di fronte alle ingiustizie

La prima cosa che ho imparato è stata che dovevo tenere a freno il mio carattere. Sono sempre stato un tipo facile agli scatti d’ira, specie quando vedevo compiere qualche ingiustizia. È stato così anche quando, sui banchi di scuola a Chieri, ho preso le difese di Luigi Comollo e di Antonio Candelo. Erano due bravi ragazzi, specie il primo: una volta si prese un paio di schiaffi solo perché non voleva partecipare alla gazzarra degli altri compagni, prima di una lezione. La sua risposta mi lasciò senza parole: disse che perdonava chi l’aveva colpito.
Quella volta lasciai correre, ma quando mi accorsi che gli altri se la prendevano di nuovo con lui ho letteralmente perso la ragione: ho afferrato un altro dei miei compagni e me ne sono servito per picchiare gli altri, quasi fosse una clava umana. Il professore, al vedere la scena, scoppiò a ridere e si dimenticò di punirci tutti. In compenso, Luigi mi ricordò che non avrei dovuto usare la mia forza fisica per fare del male agli altri. 

«Quando mi accorsi che gli altri se la prendevano di nuovo con lui ho letteralmente perso la ragione...»
Garzone in un caffè, con notti insonni a studiare

Nello stesso anno, intorno al 1832, ho dovuto cambiare pensione: la signora Lucia Matta, che mi aveva ospitato da quando avevo sedici anni, aveva ripreso in casa suo figlio, che aveva terminato gli studi. Sono quindi stato accolto da Giovanni Pianta, che aveva appena inaugurato un caffè a Chieri. “Accolto” forse è un termine eccessivo, dato che dovevo fare l’aiutante in quel locale. Ogni mattina, prima delle lezioni, dovevo fare le pulizie, poi correvo alla Messa nella chiesa di Sant’Antonio. La sera, invece, servivo al banco e dovevo tenere il conto del punteggio nella sala del biliardo. In cambio avevo solo un piatto di minestra due volte al giorno e mi veniva condonato l’affitto.
E il tempo per studiare? Avevo una buona memoria, ma dovevo pur stare qualche ora sui libri. Trascorrevo quasi tutta la notte a studiare, sotto la luce di una lampada. Molto spesso il signor Pianta mi trovava con il libro ancora aperto, cominciato la sera prima. A lungo andare, però, rischiavo di rovinarmi la salute. Ho quindi riconosciuto che dovevo fare quello che potevo e non di più, perché la notte è fatta per il riposo.


«Molto spesso il signor Pianta mi trovava con il libro ancora aperto...»
Frate o non frate?

Intanto, però, cominciavo a chiedermi cosa dovessi fare della mia vita. Il sogno di cui accennavo prima mi fece intuire che avrei dovuto conquistarmi i ragazzi non con i pugni – e quanti ne avevo dati! – ma con la mansuetudine e l’amore. Col passare degli anni, ho seguito l’interpretazione che mia madre, Margherita, aveva dato quando l’avevo raccontato a lei e agli altri di casa: era segno che Dio mi voleva sacerdote. Il fatto era che la mia famiglia era molto povera e mio padre, Francesco, era morto che non avevo ancora due anni. Non volevo essere di peso, ma sentivo che quella fosse la strada per me.
Così, nel marzo 1834, ho presentato domanda per farmi francescano. Sono andato a Torino per l’esame necessario e, il 18 aprile, sono stato accettato. Non avrei dovuto nemmeno versare la quota a cui erano tenuti i novizi: i frati comprendevano le mie ragioni economiche. Il mio parroco, don Dassano, rimase stupito quando gli chiesi i documenti che mi servivano.

«Avrei dovuto conquistarmi i ragazzi non con i pugni – e quanti ne avevo dati! – ma con la mansuetudine e l’amore»
Sogni e consigli

Era così contrario che andò da mia madre e cercò di convincerla a farmi cambiare idea. Mamma Margherita venne sì a trovarmi, ma mi fece capire che avrei dovuto seguire la volontà di Dio, non la sua o quella del parroco. «Io sono nata povera, sono vissuta povera e voglio morire povera. Anzi, te lo voglio dire subito: se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in casa tua», dichiarò, prima di andarsene.
Un altro dei miei sogni mi mandò ancora più in confusione: un frate mi diceva che in convento non avrei trovato pace e che Dio preparava per me un altro luogo. Mi confidai con Luigi Comollo, il quale mi suggerì da una parte di fare una novena, dall’altra di ricorrere a un suo zio sacerdote. L’ultimo giorno della novena arrivò una lettera da parte di don Comollo: il suo consiglio era quello di non diventare frate.
Un altro consiglio importante mi arrivò da don Giuseppe Cafasso. Aveva appena ventitré anni e doveva completare gli studi di approfondimento teologico, ma era già molto ricercato come direttore spirituale a Torino. Era anche famoso come “il prete della forca”, perché accompagnava e confortava i carcerati fin sul luogo della loro esecuzione. Anche lui mi suggerì di entrare in Seminario e di non preoccuparmi per il denaro: Dio avrebbe provveduto.

«Se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in casa tua»
 Continua…

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