Padre Carlo di Sant’Andrea, operatore di miracoli per la gente di Dublino


Padre Carlo in una foto risalente ai suoi sessant'anni
Chi è?

Joannes Andreas Houben nacque l’11 dicembre 1821 a Munstergeleen, villaggio dei Paesi Bassi. Durante il servizio militare, quando aveva circa vent’anni, sentì parlare della Congregazione della Passione, fondata in Italia nel XVI secolo da san Paolo della Croce, da poco approdata nel suo Paese.
Ottenuto il congedo, fu ammesso per il noviziato nel convento di Ere, in Belgio, dove assunse il nome di fratel Carlo di Sant’Andrea. Ordinato sacerdote il 21 dicembre 1850, fu inviato in Inghilterra, dove si adoperò per gli immigrati cattolici irlandesi e per l’unità tra i cristiani.
Sette anni più tardi venne mandato al convento di Mount Argus, presso Dublino. La sua fama di uomo virtuoso, dedito al bene delle anime, lo seguì anche in quella destinazione: molti, specie malati, andavano da lui per un consiglio, per confessarsi o per ricevere la sua benedizione, che otteneva guarigioni singolari.
Padre Carlo non lasciò quel convento che per un breve periodo: morì in quel luogo, dopo dodici anni di malattia, il 5 gennaio 1893.
Famoso già in vita come “il santo di Mount Argus”, è stato beatificato il 16 ottobre 1988 da san Giovanni Paolo II e canonizzato il 3 giugno 2007 da Benedetto XVI. I suoi resti mortali sono venerati nella chiesa di San Paolo della Croce, annessa all’omonimo monastero passionista, a Dublino.

Cosa c’entra con me?



Più o meno in questi giorni, un anno fa, sono andata nella libreria Paoline di Napoli, come faccio ogni volta che vado a trovare i miei parenti. Da quando sono diventata assidua frequentatrice delle librerie cattoliche della città in cui vivo, ammetto che è venuta un po’ meno la magia di trovare qualche articolo particolare, ma spero sempre di trovare qualcosa che altrimenti sarebbe difficilmente reperibile.
Quella volta, nel cestone dei libri in offerta speciale, ho visto la biografia di padre Carlo, che però è fuori catalogo. Non conoscevo affatto il suo protagonista, quindi mi sentivo incentivata a comprarla. A maggior ragione, ho notato che la sua scheda su santiebeati era molto esigua e piena di errori di sintassi: come mi è stato insegnato, le fonti online vanno bene, ma è meglio avere sottomano una buona biografia cartacea. Come spesso mi accade, però, il libro è rimasto a lungo negli scaffali della mia biblioteca. Altre questioni e altre storie da raccontare mi sembravano più urgenti e attuali.
Ho ripreso il libro solo pochi giorni prima di partire per Roma, per il viaggio musicale che ho già documentato, anche perché volevo occuparmi di lui a ridosso dell’Incontro Mondiale delle Famiglie, che si è svolto in questi giorni proprio a Dublino.
Dopo un’iniziale aridità, ho finito con l’appassionarmi anche alla vicenda di padre Carlo. In particolare, ho riconosciuto come i mezzi che lo avevano reso famoso fossero alla portata di tutti, anche se solo i sacerdoti possono adoperare quelli più strettamente sacramentali.
Già in altri casi ho letto di ministri sacri dotati di speciali facoltà, o di altri che, con la loro benedizione, restituivano la salute fisica e la pace interiore. Per restare in Irlanda, penso al Beato John Sullivan, gesuita. Come lui e altri, il nostro Passionista era consapevole del proprio ruolo di tramite tra Dio e gli uomini, riconducendo a Lui i meriti che questi ultimi attribuivano alla sua persona.
Un altro elemento che mi ha attratta in lui è stata la serenità con cui ha affrontato le difficoltà che caratterizzavano l’epoca storica in cui visse e la comunità dove ha trascorso la maggior parte del suo ministero. L’Irlanda di fine Ottocento erano segnate dalla “grande carestia”, che spinse molti a emigrare negli Stati Uniti o nella più vicina Inghilterra. Quelli che restavano erano bisognosi di una guida che li aiutasse a sperare nell’attesa di tempi migliori.
Quanto alla comunità di Mount Argus, aveva varie questioni aperte: soprattutto, l’ampliamento del convento e della chiesa aveva portato i confratelli ad allontanarsi per la questua. Di conseguenza, anche il loro spirito di preghiera e l’osservanza della Regola erano diventate fin troppo rilassate. Padre Carlo, invece, rimase fedele a ciò a cui era tenuto, suscitando la meraviglia dello stesso Superiore generale, padre Bernardo Maria di Gesù (al secolo Cesare Silvestrelli, beatificato proprio insieme a padre Carlo) in visita alla Provincia anglo-irlandese.
Anche il suo atteggiamento autoironico mi ha dato molto da pensare. “Il povero vecchio Carletto” (“Poor old Charlie”) era il soprannome che lui stesso si era affibbiato, riferendosi alle malattie che l’avevano colpito negli ultimi dodici anni della sua esistenza. L’ironia gli permetteva anche di avere il giusto distacco dai fenomeni eccezionali che gli capitavano, come quando, senza scomporsi, ribatté a un confratello che lo prendeva in giro a riguardo: lo stesso Dio aveva creato entrambi, affermò senza distogliere lo sguardo dal proprio caffè.

Il suo Vangelo

La Buona Notizia incarnata da padre Carlo è basata sulla disponibilità estrema all’ascolto verso chiunque avesse bisogno di lui. Sentiva di essere, come dicevo prima, un tramite tra l’uomo e Dio e doveva agire di conseguenza.
Ovviamente, non poteva aiutare tutti sollevandoli dai loro mali fisici, ma almeno cercava di consigliarli su quale strada prendere. A un uomo che domandò di poter guarire, ad esempio, scrisse:

Dobbiamo ricordare che la sofferenza è spesso il segno del favore di Dio. Dobbiamo tutti portare le nostre croci; Dio non ha risparmiato neppure la sua Beata Madre dalla sofferenza.

Magari la prima parte non è esattamente condivisibile, secondo un’ottica odierna, ma la seconda è vera eccome. Padre Carlo ha insegnato a tantissimi come portare la propria croce: sono sicura che lo fa ancora oggi, per quella che continua a essere la sua gente.

Su Internet

Sito a lui dedicato (in olandese)
Pagina a lui dedicata del sito istituzionale della Congregazione della Passione

Commenti

Post più popolari