Sulla scia di… anzi, dei Santi sociali di Torino e non solo

La Mole in lontananza
(questa e le altre foto sono opera mia)

Ammetto che questo mese ho decisamente trascurato il blog, a discapito degli altri articoli per La Croce Quotidiano sui più recenti Beati. Per febbraio ho in serbo molti argomenti di cui spero di poter trattare, organizzandomi per tempo.

Per riuscire a pubblicare qualcosa almeno sul finire di questo ultimo giorno di gennaio, ho pensato di riprendere la parte religiosa di una gita che ho compiuto a Torino lo scorso 28 agosto. Miei compagni di viaggio sono stati mia sorella e mio cognato, coi quali avevo visitato, il 27 luglio 2019, il Sancarlone di Arona e che accettano sempre di buon grado di aggiungere, nelle nostre sortite fuori Milano, la visita a qualche chiesa.

 

Una doverosa premessa

 

Non conosco ancora bene la città di Torino, pur essendoci passata tre volte. La prima nel 2010, per il pellegrinaggio diocesano per l’ostensione della Sindone: ne facevo menzione nel post in cui raccontavo il mio legame con san Giovanni Bosco. La seconda quando ho partecipato all’ordinazione sacerdotale di un mio comparrocchiano, uno dei primi tre sacerdoti della Fraternità della Speranza, ovvero del Sermig. La terza, quando ho raggiunto (per la seconda volta) il complesso salesiano di Valdocco, dove il webmaster di santiebeati.it ha celebrato una delle sue Prime Messe (precisamente, nella Cappella Pinardi). Quella del 28 agosto di un anno fa, dunque, sarebbe stata la quarta.

Nemmeno sentivo di aver approfondito pienamente vita, morte e miracoli di quelli che sono chiamati Santi sociali, concentrati soprattutto a Torino, o comunque nel Piemonte, e specializzati, per così dire, in opere a favore di categorie precise della società tra Otto e Novecento: giovani, carcerati, operai, donne a rischio e così via.

A dirla tutta, è una definizione che non mi convince del tutto: ritengo, infatti, che non esistano Santi (anche senza la maiuscola, ossia non ancora canonizzati) a-sociali. Ognuno di essi, a mio avviso, ha dato un contributo per migliorare la vita dei propri fratelli e sorelle, per la salvezza delle loro anime e la dignità della loro esistenza terrena.

 

Un Beato della carità e una cooperativa a suo nome

 

La meta principale della nostra gita era il parco del Valentino, col relativo borgo medievale ricostruito, seguito dal Castello del Valentino. A mia sorella, incaricata di prenotare le visite, avevo però chiesto di portarmi a visitare il Santuario della Beata Vergine Consolata, di cui avevo sentito molto parlare.

Nel borgo ci siamo fermati in un bar, dove campeggiavano molti articoli di modernariato legati a famose marche di dolci, ma anche un ritratto simil-pop art del Beato Federico Ozanam, il fondatore delle Conferenze di San Vincenzo.

Secondo quanto ho capito dal materiale presente sul bancone, il bar è gestito dalla cooperativa sociale Fonderie Ozanam, già nota come Meeting Service Catering Onlus, che avvia nel mondo del lavoro persone con varie fragilità. L’iniziativa seguiva l’apertura del bistrot Qui Da Noi e il ristorante Le Fonderie Ozanam.

Il nome è stato scelto, racconta il sito ufficiale, per due ragioni. Anzitutto, il Beato si era anche lui dedicato alle classi più svantaggiate economicamente. La principale è che negli anni Settanta del secolo scorso, nell’ex fonderia Simbi in via Foligno 14, fu aperto un ostello per famiglie emigrate soprattutto dal Sud Italia, denominato Casa Ozanam. Tra 1986 e 1987, per problemi finanziari, l’ostello venne riconsegnato al Comune, che lo destinò comunque a opere sociali.

 

La Consolata, Madre di Santi

 

Alla Consolata siamo arrivati verso le 15, ma l’abbiamo visitata, io per prima, più da turisti curiosi che da pellegrini devoti, tranne forse per i momenti in cui mia sorella mi ha chiesto di aiutarla ad accendere qualche candela (di quella marca irlandese famosa perché i suoi prodotti, se ho ben capito, non producono fumo o quasi; le ho viste anche nel Duomo della mia città).
Ho riscontrato la mia smemoratezza e ignoranza quando ho scoperto che i resti mortali del Beato (che però ha un miracolo in esame per la canonizzazione) Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, non sono venerati in quel Santuario, di cui lui era diventato rettore ad appena ventinove anni, ma nella chiesa della Casa Madre dei suoi Missionari, in corso Francesco Ferrucci 14, sempre a Torino.

Ho potuto però pregare di fronte alle spoglie, quelle sì venerate là, di san Giuseppe Cafasso, che dell’Allamano era zio da parte di madre. A lui, che si era speso per l’assistenza dei carcerati e dei condannati a morte, ma anche per quella che oggi chiamiamo formazione permanente del clero, ho affidato i sacerdoti che conosco impegnati nella pastorale carceraria. Mi piacerebbe riuscire a dedicargli un post, ora che sento di avere un legame più forte anche con lui.

 

Niente ricordin, ma ho sostato al Caffè del Bicerin

 

Quante cose al mondo puoi fare...
Sono invece rimasta a bocca asciutta quando ho appurato che il negozietto interno era chiuso a causa dell’assenza della volontaria incaricata. Se avessi avuto con me uno dei miei colleghi di santiebeati, espertissimo conoscitore della santità piemontese e non solo, avrei avuto le porte aperte, anzi, spalancate.
Ho cercato di tirarmi su bevendo una cedrata (a pranzo avevo mangiato parecchio, concludendo con una specialità torinese, il dolce chiamato bônet) presso il Caffè al Bicerin, sulla stessa piazza del Santuario.
Il bicerin è una bevanda a base di cacao, caffè e fior di latte, apprezzatissima da Camillo Benso conte di Cavour. Neanche a farlo apposta, mia sorella, che insegna Storia alle scuole superiori, si è seduta nel medesimo punto che una targa segnalava come quello preferito dal famoso statista.
L’addetta alla sacrestia, a cui avevo chiesto come ricevere qualche santino per la mia collezione, mi aveva risposto che ne avrei trovati parecchi alla libreria San Paolo, a cinque minuti da lì. I miei accompagnatori hanno acconsentito, però alla fine sono entrata solo io. Cercando di essere più rapida possibile, mi sono limitata a un santino di carta merlettata prodotto da una casa editrice torinese specializzata.

 

Ritorno a Valdocco

 


Mio cognato aveva anche lui una meta aggiuntiva: voleva andare a trovare un suo amico chef, il quale ha una scuola di cucina in corso Regina Margherita. Aiutati dalle applicazioni dei nostri telefonini, abbiamo capito quali mezzi pubblici prendere, però anche quello si è rivelato un buco nell’acqua.
Mentre camminavamo lungo il corso, ho avvistato la basilica di Maria Ausiliatrice. Ho quindi chiesto a mia sorella e a suo marito di poterci fare un salto, facendo leva su due motivi. Il primo è non ci erano mai stati, pur avendo visitato Torino più volte di me. Ce n’era però uno molto più importante: il padre e lo zio di mio cognato sono stati exallievi salesiani, precisamente del collegio di Istanbul.
Anche lì, però, mi sono comportata quasi da turista. Ho preso due copie del Bollettino Salesiano per sfidare, nel viaggio di ritorno, mia sorella al cruciverba che, insieme alle pagine della Postulazione, è la parte della rivista che prediligo.
Notando la sua curiosità verso santa Maria Domenica Mazzarello e san Domenico Savio, specie perché la cappella dedicata a quest’ultimo è decorata con parecchi fiocchi di nascita, le ho spiegato a grandi linee chi fossero.
Alla prima ho affidato una mia vecchia amica, Figlia di Maria Ausiliatrice, e quella missionaria della stessa congregazione che mi era stata consegnata come “amica di tastiera” alla Veglia Missionaria di due anni fa. Riguardo san Domenico, ammetto di aver chiesto che ogni tanto qualcuno si ricordi (ma va detto che succede) che per almeno un secolo e mezzo l’esemplare più eccellente di santità adolescente è stato lui. Nella mia prima visita avevo preso un “abitino” di quelli che i suoi devoti usano in caso di gravidanze difficili, quindi mi bastava.

 

Il mio grazie a don Bosco

 

Infine, ecco l’urna di san Giovanni Bosco. Stranamente, non c’erano candele elettriche accese: non è servito neppure inserire una moneta da cinquanta centesimi.

Intanto, mio cognato era sparito: mia sorella è quindi uscita per andarlo a cercare, passando per il cortile laterale. Io ho colto l’occasione per sgusciare sul retro della cappella, per essere più raccolta e ricordarmi tutto quello che avrei voluto dire al fondatore della Famiglia Salesiana.

Mi è tornato alla mente quello che san Luigi Orione disse più volte, ma nei cui scritti non c’è traccia, riguardo alla gratitudine che sentiva nei suoi riguardi (era stato infatti accolto da ragazzo nell’Oratorio di Valdocco e aveva iniziato la formazione per diventare Salesiano, ma poi capì di dover entrare nel clero della sua diocesi d’origine):

Camminerei sui carboni ardenti per vedere ancora una volta don Bosco, e dirgli grazie.

Piacerebbe anche a me vederlo vivo, non solo nel simulacro che custodisce le sue ossa, e ringraziarlo per quanto ha fatto per me. Grazie a lui, infatti, ho ottenuto il mio primo vero lavoro regolarmente retribuito, proprio per la rivista di un’Opera salesiana, quella del Sacro Cuore di Bologna. Mai avrei pensato che tramite quell’attività, ma ancor prima per mezzo di questo blog e di altri articoli, il motto Da mihi animas coetera tolle («Dammi anime e prendi il resto»), che avevo letto anche sulla sua urna nella peregrinatio milanese nel 2014, si sarebbe avverato.

Gli devo anche il legame con la suora missionaria di cui sopra, ma anche con Davide, giovane religioso salesiano originario della parrocchia dove abito ora e che ho conosciuto di persona circa un mesetto fa.

Purtroppo non avevo con me un foglietto di carta, solo una penna, per cui non ho potuto scrivere una preghiera da lasciare nell’apposita urna. Se l’avessi fatto, non mi sarei comportata diversamente da san Domenico Savio, il quale, rispondendo a una richiesta che don Bosco stesso aveva rivolto ai ragazzi dell’Oratorio per il proprio onomastico, la sera del 23 giugno 1855 (sarebbe stato lui a fare un regalo a loro, non il contrario), gli presentò un foglietto con scritto: «Mi aiuti a farmi santo».

 

Spese folli con Linea Valdocco

 

E questo era solo l'inizio...

Se alla Consolata sono rimasta a secco, nel complesso della casa madre salesiana ho fatto letteralmente il pieno. Ricordavo infatti che c’era un fornitissimo negozio, che da qualche tempo ha assunto il nome di Linea Valdocco, che compare anche sui prodotti che si possono trovare solo lì e sulla versione digitale.
Pensavo di limitarmi a un sobrio braccialetto con una medaglia recante da una parte l’immagine di don Bosco e dall’altra quella della Madonna Ausiliatrice, ma quando ho visto dei graziosissimi portachiavi in gomma che raffiguravano l’Ausiliatrice medesima, ma anche san Francesco di Sales e la Venerabile Margherita Occhiena, ovvero la madre di don Bosco, li ho presi immediatamente, aggiungendo anche una riproduzione del classico volto del Santo dei giovani, meno fumettistica.

Ho poi fatto incetta di piccole biografie di vari personaggi, limitandomi a quelle più collegate al territorio e a non più di quattro. Non potevano mancare i santini, compreso uno che riproduce l’ultima foto di don Bosco.

 

Promesse, sensi di colpa e un nuovo impegno

 

Credevo di aver finito, ma alla cassa ho visto, in offerta speciale, le memorie del Beato Michele Rua, il primo successore di don Bosco, a cui ho aggiunto, per darla a mia sorella, un’immagine con la preghiera dell’insegnante, delle edizioni Paoline.

Ero appena arrivata a concludere gli acquisti, quando mi è suonato il telefono: mio cognato era stato trovato. Erano le cinque, quindi avevamo mezz’ora per arrivare a Torino Porta Nuova e prendere il treno del ritorno.

Davanti a me c’era una famiglia srilankese, che aveva molti più articoli da pagare, e un’altra signora, che doveva prendere solo una statua dell’Ausiliatrice. Di norma non mi piace saltare la fila, ma appena mi sono accorta dell’orario, ho esclamato, riferendomi a mio cognato: «Quello lì, se faccio tardi, mi uccide!». Il commesso, che suppongo fosse un Salesiano Coadiutore (religioso non sacerdote), se non un prete, ha cercato di calmarmi: «No, no, l’omicidio è peccato!».

Per scusarmi, ho ribattuto: «È che sentivo di voler venire qui a ringraziare don Bosco! Gli devo molto!». «Ma tornerai», ha incalzato il commesso. «Sì, tornerò!», ho concluso, lasciando sul bancone quarantatré euro e qualche spicciolo, cifra approssimata perché il registratore di cassa era momentaneamente guasto.

Sul treno, dopo aver concluso il cruciverba, ho iniziato a sentirmi in colpa. Quei signori forse non abitavano a Torino, men che meno in Italia, e io, che in tre ore posso tornarci quando voglio, li ho scavalcati, o comunque trattati male. Tutto per accumulare portachiavi presi solo perché li trovavo simpatici e libri di cui non assimilerò mai a dovere gli insegnamenti.

Quel pensiero pessimistico è durato meno di una giornata: in fin dei conti, i gadget mi ricorderanno l’allegria salesiana che deriva dallo stare sempre con il Signore, mentre i libri mi saranno sicuramente utili, soprattutto quello su san Giuseppe Cafasso.

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