Emilia Fernández Rodríguez de Cortés, dall’inganno al martirio con l’aiuto del Rosario
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Raúl Berzosa, Emilia “la cestaia”, 2017, olio su tela; opera realizzata per la beatificazione e destinata alla Cattedrale di Almería (fonte) |
Chi
è?
Emilia
Fernández Rodríguez nacque il 13 aprile 1914 a Tíjola, nella provincia e
diocesi di Almería (situata nella regione spagnola dell’Andalusia), seconda dei
tre figli di Juan Fernández Rodríguez e Pilar Rodríguez Rodríguez. Come i suoi
genitori, apparteneva ai gitani, detti anche “kalés” (“kalò” al singolare),
ovvero ai membri del popolo Rom stabiliti in Spagna.
Alternò
la scarsa frequenza scolastica, non imparando quindi né a leggere né a
scrivere, all’apprendimento di un lavoro: precisamente, divenne abile nella
confezione di ceste e canestri di vimini, come i suoi genitori e parenti: in
paese fu più nota come “Emilia la Canastera” (“la canestraia” o “la cestaia”).
Nei giorni di mercato andava nei paesi vicini a vendere i frutti del suo
lavoro.
In una
data imprecisata tra febbraio e marzo 1938, Emilia sposò Juan Cortés Cortés,
anche lui un kalò, probabilmente suo consanguineo. Il matrimonio seguì le
consuetudini gitane, quindi non fu registrato in comune, men che meno in
chiesa: da due anni, infatti, imperversava in Spagna la guerra civile e, ancor
prima, la monarchia era stata dichiarata decaduta.
Quando
Juan fu obbligato ad arruolarsi nell’esercito repubblicano, Emilia, che nel
frattempo era rimasta incinta, andò personalmente a protestare, perché lei e il
marito volevano restare insieme e, dopotutto, non si erano mai schierati da una
parte o dall’altra durante la guerra.
Poiché
il marito fu obbligato a presentarsi all’ufficio di reclutamento, pena
l’incarceramento per diserzione, lei escogitò un trucco: gli spruzzò del
verderame sugli occhi, così da renderlo cieco per il tempo sufficiente a
dichiararlo inabile alla leva. L’inganno fu presto scoperto, anche perché la
cecità non era permanente: i due sposi furono incarcerati separatamente.
Quindi
Emilia, nella tarda sera del 21 giugno 1938, fu detenuta nel carcere
“Gachas-Colorás”, poco fuori da Tíjola. L’8 luglio, dopo un processo sommario,
ricevette la condanna a sei anni di detenzione.
Nella
stessa cella, o meglio, in uno dei due stanzoni dove furono rinchiuse quasi
trecento donne, Emilia notò che un gruppetto di esse, ogni giorno, si radunava
e pregava il Rosario. Quel modo di pregare l’incuriosì subito e chiese di
potersi unire a loro.
Una di
quelle donne, Dolores del Olmo, detta Lola, divenne quindi la sua catechista:
le insegnò il Padre nostro, l’Ave Maria e il Gloria al Padre e l’aiutò,
attraverso il Rosario, a comprendere le verità della fede, a cui era stata
battezzata, ma non educata.
Pilar
Salmanderón, la sorvegliante delle detenute, cercò di farsi svelare da Emilia
chi l’avesse introdotta a quelle che, secondo il suo modo di pensare, erano
attività sovversive. Le promise un trattamento migliore, maggiori razioni di
cibo, perfino la scarcerazione, ma la prigioniera non rivelò mai il nome della
sua catechista, finendo in cella d’isolamento.
Il 4
dicembre 1938, malata per le condizioni precarie e la denutrizione e, in più,
prossima al parto, Emilia fece richiesta ufficiale di rilascio al Governatore
Civile, ma la risposta non arrivò. Il 12 gennaio, assistita da alcune detenute
e sempre in cella d’isolamento, diede alla luce una bambina, che fu battezzata
d’urgenza col nome di Ángeles.
La sera
stessa, madre e figlia furono trasportate in ospedale, ma rientrarono nella
cella d’isolamento dopo quattro giorni. Il 24 gennaio 1939 fu inviata
un’estrema richiesta di scarcerazione, perché la donna, ventiquattrenne, era
ormai morente; si spense alle 9.30 dell’indomani, nell’ospedale di Almería,
dov’era stata riportata.
Emilia
fu inclusa, insieme ad altri presunti martiri, nel gruppo che già contava
novantatre nomi di sacerdoti, religiosi e laici della diocesi di Almería:
l’inchiesta diocesana per questi altri Servi di Dio si svolse dal 26 febbraio
al 9 aprile 1999.
Don José
Álvarez-Benavides y de la Torre e 114 compagni, compresa Emilia, vennero
beatificati il 25 marzo 2017 nel Palazzo delle Esposizioni e dei Congressi di
Aguadulce, ad Almería, sotto il pontificato di papa Francesco.
I resti
mortali della Beata Emilia furono sepolti in una fossa comune, quindi non fu
possibile identificarli. La sua memoria liturgica, ovvero quella dei 115
Martiri di Almería, ricorre il 6 novembre, data in cui le diocesi spagnole
ricordano i loro Martiri del XX secolo.
Cosa
c’entra con me?
Non ricordo la data esatta del mio primo incontro con la Beata Emilia né come sia avvenuto, ma penso proprio che sia da collocare prima della beatificazione. Forse era avvenuto sfogliando un libro su Ceferino Giménez Malla, l’altro Beato gitano, ma non ne sono sicura.
Inoltre,
nella mia raccolta di santini, ne ho parecchi suoi, ma con la qualifica di
Serva di Dio. Ho come l’impressione di averli presi prima del 2017 e pure in
gran quantità e quindi, a beatificazione avvenuta, di essermi sentita come se
avessi delle monete fuori corso.
Sono
comunque riuscita a risalire alla data della pubblicazione della sua scheda su
santiebeati.it, aggiornata dopo la beatificazione e completata con un altro
testo (quando viene inserito un testo rifatto o comunque modificato, la data
della prima pubblicazione va persa): era il 27 giugno 2014.
Mi ero
decisa a scrivere quel profilo per due ragioni. La principale è dovuta al fatto
che anch’io mi chiamo Emilia: ogni volta che vengo a sapere di qualche
candidata agli altari mia omonima, o che si chiamava così al Battesimo (valgono
anche i secondi nomi) e poi ha assunto un nome da religiosa, faccio in modo di
approfondirne la conoscenza. Anzi, prima o poi potrei fare un approfondimento
sulla “santità di nome Emilia”. La seconda è che pensavo che la sua storia
fosse molto avventurosa e appassionante e potesse aiutare a superare i
pregiudizi razziali che continuano a circondare le persone del suo popolo.
Quando
ho appreso che lei era inclusa nel gruppo dei 115 Martiri della diocesi di Almería,
avrei voluto scrivere un profilo completo di tutti, ma non ce l’ho fatta né
credo di riuscirci: ci vorrebbero molti altri redattori, ma santiebeati è un
progetto totalmente volontario. Come ho già scritto, ho almeno aggiornato la
sua scheda.
La
confusione riguardo il mio primo incontro è dovuta al fatto che, nel post in cui parlavo di
san Charbel Makhlouf, ho raccontato che il 30 gennaio 2018, di passaggio per la
chiesa di Santa Maria al Carrobiolo a Monza, ho preso dei santini sia della
Beata Emilia, sia del Beato Ceferino. A questo punto, credo che si trattasse di
un’immaginetta congiunta, in cui entrambi sono definiti “martiri del Rosario”;
se invece erano santini singoli, ho preso ugualmente quelli di Emilia, seppur
indicata come Serva di Dio, perché credevo di non riuscire a trovarne altri.
La
ragione – mi scuso per la digressione – si spiega se si pensa che don Mario Riboldi, sacerdote della diocesi di Milano tra i pionieri dell’apostolato tra i
rom e i sinti, è stato a lungo affiancato da un barnabita, padre Luigi Peraboni:
su un santino di Ceferino che avevo preso ancora più tempo prima era indicato,
come recapito per segnalare presunte grazie, quello di via della Commenda 1 a
Milano, dove si trova la chiesa dei Santi Paolo e Barnaba e dov’è venerato
sant’Antonio Maria Zaccaria, fondatore dei Barnabiti. Più in generale, i membri di questo Ordine hanno uno stretto
contatto con le popolazioni nomadi, tanto da aiutarne alcuni membri nel
discernimento vocazionale.
Tornando
in tema, due anni dopo la beatificazione dei 115 martiri, ho visto che era in
uscita un libretto su Emilia, promosso dalla Fondazione Migrantes, l’organismo pastorale della
Chiesa Cattolica Italiana che segue la pastorale dei migranti, in cui rientrano
anche i rom e i sinti. L’ho preso, così da integrare le informazioni che avevo
su di lei e da contestualizzarne vita e martirio all’interno della più ampia
persecuzione collegata alla guerra civile spagnola.
Ho
quindi riconosciuto che la vicenda di Emilia non è ravvicinabile a quella di
altri martiri riconosciuti o con le cause in corso, sia tra i membri del clero,
sia tra i religiosi e ancor più tra i laici. Era battezzata cattolica, ma non
conosceva le preghiere basilari e nemmeno gli elementi costitutivi della fede.
Soprattutto, la sua prigionia non è dovuta a motivi religiosi: è stata
incarcerata, invece, per aver aiutato il marito a sfuggire alla leva
obbligatoria.
Il
carcere è stato lo strumento di cui il Signore si è servito per arrivare a lei
tramite la catechista Lola e, ancor prima, l’esempio delle altre donne
(comprese alcune Figlie della Carità vincenziane, monache Serve di Maria e
religiose della Purissima Concezione di Maria) che aveva visto radunarsi in
preghiera. Le altre prigioniere erano ammirate dalla semplicità con cui
apprendeva le conoscenze necessarie per capire i misteri meditati nel Rosario:
una ha testimoniato come lei si sentisse particolarmente vicina a quello della
nascita di Gesù perché era nata in una circostanza simile, ossia in una delle cuevas,
le grotte che fungevano da abitazioni per i gitani e i poveri, tanto frequenti
in Andalusia.
La
piccola biografia non permette però di capire che fine abbia fatto Ángeles, sua
figlia. I dati storici su di lei si fermano al fatto che fu portata in un
istituto benefico del dipartimento di Almería, ma avrebbe dovuto essere
riportata in famiglia. Un altro dato certo è che Juan, sopravvissuto alla
prigionia, si risposò proprio con la sorella di Emilia: allora fu necessario
indagare la consanguineità.
Insomma,
quella di Ángeles sarebbe una storia da film: in uno scenario ipotetico, ho
immaginato che lei sia andata alla ricerca delle sue origini e abbia scoperto
che la madre naturale era una gitana e una martire, ma lo abbia tenuto per sé,
assistendo in segreto, quasi ottantenne, alla sua beatificazione.
La vicenda di Emilia mi è tornata alla mente in questi giorni in cui, forse a causa della penuria di notizie tipica del mese di agosto, è diventata di rilevanza nazionale quella dell’uccisione di Cecilia De Astis, settantunenne milanese ma pugliese d’origine, di cui sono stati accusati quattro minorenni provenienti da un campo rom.
Questa vicenda mi ha toccata da vicinissimo perché
è avvenuta letteralmente a due passi da casa mia: la donna uccisa, in più,
partecipava alla Messa nella mia parrocchia, come mi ha assicurato una signora
ministro della Comunione Eucaristica, che ha subito riconosciuto il suo volto
diffuso sui media.
Mi sono
adoperata in più modi affinché giornali, siti e televisioni raccontassero la
parte ecclesiale di questa storia, rammaricandomi però per la frequente
confusione tra parroco-responsabile della mia Comunità pastorale e il vicario
parrocchiale che ha presieduto le esequie.
Ancora
di più, mi ha fatto quasi vergognare veder definire il quartiere dove abito
come un luogo dove i furti sono all’ordine del giorno e dove i ragazzi,
lasciati a sé stessi, siano rom o altro, sanno già guidare a tredici anni o
poco meno.
Per
riprendere le parole del sacerdote che ha tenuto l’omelia, che non è il parroco
ma appunto il vicario, anch’io spero che i preadolescenti coinvolti incontrino
qualcuno che li metta sulla via del bene, proprio com’è successo a Emilia,
anche se il suo reato fu diverso da quello in questione.
Allo
stesso tempo, spero che gli abitanti dei campi limitrofi alla mia parrocchia
compiano qualche passo per sentirsi membri delle comunità cristiane e non
ricorrano a esse solo per i funerali. Tra l’altro, sono sicura di aver sentito
invocare sia lei sia Ceferino (italianizzato Zeffirino), durante un funerale in
cui ero in servizio liturgico, nelle Litanie dei Santi previste per le esequie
di Rito Ambrosiano (non penso costituisse un abuso), o comunque, tempo prima,
li avevo menzionati allo stesso sacerdote incaricato della Pastorale diocesana dei Rom e
Sinti venuto per l’occasione.
Ha testimoniato la
speranza perché…
Emilia è una testimone della speranza perché si è aggrappata alla vita con tutte le forze, che man mano venivano meno, così da dare alla sua bambina la possibilità di venire al mondo.
Questa sicurezza
è stata alimentata in lei dall’esempio delle donne cattoliche detenute,
compresa la catechista e amica Lola: da lei ha capito che Gesù era venuto nel
mondo, era morto ed era risorto per dare la speranza a tutti, compresi quelli
che si trovavano in situazioni come la sua.
Così,
meditando i misteri del Rosario, che mai come in questo caso hanno
rappresentato un compendio del Vangelo, ha trovato sempre maggiori motivi per
sperare, anche riguardo alla sua liberazione, che ha desiderato e supplicato
davvero fino all’ultimo giorno.
Il suo Vangelo
Come scrivevo sopra, la Beata Emilia è una martire atipica, perché non è stata incarcerata per la fede, ma l’ha assunta pienamente e responsabilmente solo dopo l’inizio della prigionia. Non per questo la sua testimonianza va sminuita, ma assume una luce del tutto particolare.
Se non
avesse avuto la fede, probabilmente si sarebbe lasciata andare allo sconforto,
che pure l’ha colta non appena era entrata nella cella comune; così facendo,
avrebbe condannato a morte anche la sua bambina. Tuttavia, la storia dei
Testimoni non si fa con i “se”, ma con le certezze che emergono esaminando nel
complesso le loro vicende.
In
questo caso, sento di riconoscere che l’intraprendenza e l’inganno, che l’hanno
condotta a compiere il male, ovvero a violare la legge, sono stati trasformati
in un’occasione in cui Dio si è reso vicino a lei, sia tramite le compagne di
prigionia, sia sostenendola nel corso della difficilissima gravidanza.
Alcune
delle prigioniere a cui fu concesso di assisterla nel momento del parto hanno
infatti testimoniato di averla udita ripetere delle brevissime preghiere, quasi
giaculatorie:
Signore,
che tutto vada bene... Vergine Maria, aiutami!
L’aiuto
è arrivato permettendole di far nascere la bambina, ma penso che quella
preghiera sia stata la sua costante in tutto il tempo dell’isolamento e le
abbia dato la forza di non denunciare le “sovversive” che le avevano cambiato
la vita.
Per saperne di più
Massimiliano Taroni, Emilia Fernández Rodríguez – la gitana martire, Velar 2019, pp. 48, € 4,00.
La vita
di Emilia inserita nel contesto storico della guerra civile spagnola e del
martirio di alcuni cristiani della sua diocesi.
Su Internet
Pagina del sito del Dicastero delle Cause dei Santi dedicata a José Alvarez-Benavides y de La Torre e 114 compagni, con il profilo generale del gruppo, l’elenco e l’Angelus in cui papa Francesco riferiva dell’avvenuta beatificazione
Sezione del sito della diocesi di Almería dedicata ai 115 martiri (in spagnolo)
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