Don Salvatore Mellone e gli altri: sacerdoti per poco... o per sempre?


Se credevate che mi sarebbe sfuggita la vicenda di don Salvatore Mellone, che sta commuovendo mezzo web cattolico e interrogando chi dice di non credere, vi sbagliavate di grosso. Non ne ho parlato qui fino ad oggi per non dare l’impressione di speculare su di lui per ottenere qualche visualizzazione in più. 
Su La Croce-quotidiano di giovedì scorso, invece, ho provato a dare un contributo originale a riguardo, cercando di far capire che ci sono stati dei precedenti, nella storia recente della Chiesa. In verità, temo che le mie parole potrebbero essere state fraintese: dire che ce ne sono stati altri equivarrebbe a sminuire la portata di questo fatto.
Sia per scusarmi, sia per diffondere ancora di più quelle esperienze di sacerdoti ordinati con dispensa speciale o con anticipi vari, ripropongo qui il mio pezzo con qualche aggiustamento, completato da alcune riflessioni che mi sono sorte in seguito. Le immagini sono perlopiù tratte dalle pagine a cui rimandano i collegamenti inseriti nei nomi di ciascun personaggio.
Astenersi duri di cuore o gente che crede che io debba piantarla di concentrarmi sui preti!
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Per cominciare, don Salvatore


Oggi mi sento portato sulle spalle da Cristo; da sacerdote porterò la stola con Cristo, per la salvezza del mondo. Anche celebrare una sola Eucaristia per me sarà partecipazione reale al sacerdozio di Cristo.
Potrebbero sembrare le pie parole di qualche seminarista di buona volontà, che sente sempre più vicina l’ordinazione sacerdotale. In verità, appartengono a Salvatore Mellone, trentottenne di Barletta, che nel giro di pochissimi giorni ha potuto vedere il compimento della sua chiamata.
Dopo aver ricevuto la diagnosi di una neoplasia all’esofago, ha continuato come poteva gli studi in Seminario. Il vescovo di Trani-Barletta-Bisceglie-Nazareth, monsignor Giovan Battista Pichierri, si è quindi avvalso delle facoltà concesse dal diritto canonico e, una volta ottenuto parere favorevole dalla Congregazione vaticana per il Clero, ha comunicato la notizia all’interessato. Martedì 14 aprile Salvatore è stato istituito Lettore e Accolito; l’indomani, invece, è stato ordinato diacono. Infine, il 16 aprile, è diventato sacerdote. Tutti i riti si sono svolti all’interno della Messa, celebrata in casa sua: la liturgia dell’ordinazione sacerdotale, in particolare, è stata partecipata a distanza anche dai fedeli della parrocchia del SS.mo Crocifisso a Barletta, sua parrocchia di provenienza, i quali l’hanno seguita in chiesa tramite un collegamento video.

Don Antonio, cinquant’anni fa

Casi come quello di don Salvatore si sono già verificati nei confronti di seminaristi diocesani, anche se ciascuno ha la sua singolarità. Quello più indietro nel tempo risale a mezzo secolo fa: Antonio Loi, seminarista di IV Teologia della diocesi di Iglesias, apprese il 16 marzo 1963 di avere un linfoma di Hodgkin. Dopo che il suo vescovo, monsignor Giovanni Pirastru, ebbe richiesto e ottenuto la dispensa alla Congregazione del Clero, il giovane poté cominciare a prepararsi, soprattutto interiormente, come lasciano trasparire alcuni passi del suo Diario. Divenne suddiacono il 7 luglio 1963, diacono il 28 luglio e prete il 21 settembre, nella cappella del Seminario di Iglesias.
Nei venti mesi che trascorse in seguito, avvertì che qualcosa era cambiato in lui:
Sento il bisogno prepotente di saltare giù dal letto, di correre a salvare tante anime, lavorare fino all’esaurimento di me stesso… Là c’è la gioia del lavoro, qua si vive solo di fede. Là ci si sente utile a tutti, qua di disturbo a tutti, di sofferenza per molti. O Signore, ti offro anche questo sacrificio della mia inutilità ed immobilità.
Don Antonio, che da tempo aderiva all’Alleanza Sacerdotale, uno dei quattro rami dell’Opera dell’Amore Infinito di Vische Canavese, morì il 29 maggio 1965, a 28 anni, dopo aver chiesto a quelli che gli stavano accanto di cantare con lui il Te Deum.

Don Cesare, il più giovane

Questo precedente sardo ebbe una replica ancora più singolare nel Continente, precisamente nella Torino degli anni ’70. Cesare Bisognin, diciannovenne, aveva da poco intrapreso gli studi teologici nel seminario maggiore, quando prese a sentire strani dolori al ginocchio sinistro. Volle leggere per primo i risultati degli esami: osteosarcoma al terzo inferiore del femore sinistro. L’inevitabile sconforto fu mitigato dalla vicinanza di molti preti amici e dei suoi familiari.
Il cardinal Michele Pellegrino, all’epoca arcivescovo di Torino, sulle prime non era d’accordo ad anticipare l’ordinazione: il candidato era troppo giovane ed era appena in I Teologia. Alla fine, però, comprese che poteva essere un segno per la sua diocesi, anzi, per tutta la Chiesa. Dopo aver avvicinato papa Paolo VI il 31 marzo 1976, ricevette da lui il comando di ordinarlo subito. La consegna venne presto eseguita: come Salvatore, in casa propria, Cesare ricevette in rapidissima successione i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato (2 aprile 1976), poi venne il Diaconato (3 aprile) e, per concludere, il Sacerdozio (4 aprile).
In un’epoca dove i mezzi di comunicazione di massa iniziavano ad avere una notevole influenza, la storia di don Cesare si diffuse in maniera sorprendente. Molte persone, ormai con qualche capello bianco, ricordano ancora l’intervista che gli venne fatta nel programma «Stasera G7» su Raiuno, o gli articoli comparsi sulla stampa cattolica e non. Furono quelli, insieme alle lettere cui rispondeva e che gli arrivavano da ogni parte d’Italia, i mezzi con cui esercitò il suo sacerdozio.
Ventiquattro giorni dopo, il 28 aprile, quello che forse è il prete più giovane della storia recente rese l’anima a Dio. Prima di spirare, disse all’amico don Pino Cravero, che l’aveva seguito da sempre:
È un gran dono il sacerdozio. Ho solo paura di non essere capace di viverlo bene. Dillo ai giovani: vale la pena buttarsi per questa strada!

Don Pietro, quello che ha atteso più a lungo
Quasi come in una catena positiva, furono proprio le vicende di don Antonio e don Cesare a mettere in moto una raccolta di firme, promossa da alcuni maestri di Asti, per chiedere al vescovo, monsignor Nicola Cavanna, di procedere in modo simile per Pietro Gonella. Affetto da nefrite acuta sin da quando aveva iniziato a frequentare la I Liceo nel Seminario diocesano, era da trent’anni paralizzato a letto. Uscì di casa solo per prender parte, come già raccontavo nel numero dell’11 febbraio scorso, ad alcuni pellegrinaggi a Lourdes.
Le sue visite lì lo aiutarono a comprendere che, probabilmente, doveva essere un prete speciale. Così scrisse ad alcuni seminaristi il 15 maggio 1967:
Anch’io mi preparavo con intenso cuore al sacerdozio bramato, ma il Signore mi visitò, mi credette degno di aggiungere un po’ che manca alla sua Passione e mi rese subito sacerdote di sangue.
Quell’offerta venne, in un certo senso, convalidata col sacramento dell’Ordine, ricevuto in casa sua, il 23 settembre 1978. Dopo quindici mesi, trascorsi nella preghiera, nella celebrazione della Messa e nell’incoraggiamento a persone più sfiduciate di lui, don Pietro concluse i suoi giorni terreni; aveva 48 anni.

Don Eugene e le sue tre ore sacerdotali

Fonte
Sembrava che eventi simili fossero limitati al nostro Paese, ma, con un balzo di quasi vent’anni, si varca addirittura l’Oceano per incontrare Eugene Hamilton. Ventiquattrenne newyorkese, a lui spetta il primato di essere stato sacerdote per il minor tempo: aveva un tumore al petto, che peggiorò proprio nei giorni in cui si stava preparando all’ordinazione. Il 24 gennaio 1997, mentre era agonizzante, il vescovo ausiliare Edwin O'Brien corse a casa sua per dargli l’unzione sacerdotale, che seguì quella degli infermi già ricevuta. Tre ore dopo, il giovane non era più vivo.
Si era affidato in particolare, anche prima di ammalarsi, all’intercessione del Servo di Dio Terence Cooke, cardinale arcivescovo di New York, morto nel 1983 anche lui di cancro, che definì il sacerdote come «Servo, Vittima, Fratello, Ascoltatore, Amico». Fu quello il titolo che don Eugene diede a un testo autobiografico che gli venne ordinato di scrivere e nel quale dichiarò:
Ho trovato una tale pace nella Volontà del Padre. È dove anche il seminarista e futuro sacerdote potrà egli stesso trovare pace.
Quella stessa sensazione che, probabilmente, hanno avvertito gli ultimi tre casi più vicini a noi nel tempo.

Don Graham, don Scott, don William: dal 2012 in poi

Lo scozzese Graham Turner, ad esempio, che era già diacono quando gli venne riferito che aveva la leucemia, è stato ordinato il 9 aprile 2012 ed è morto il 16 dello stesso mese, a quarantotto anni. Anche Scott R. Carroll, della diocesi di Toledo in Ohio, era stato regolarmente ordinato diacono, sebbene il suo fisico fosse già segnato da un melanoma. La sua ordinazione sacerdotale ebbe comunque tre anticipi, dato l’aggravarsi delle sue condizioni. Il 10 maggio 2013, dopo la celebrazione della Messa in casa sua, è spirato nel sonno: era prete da due giorni.
L'ordinazione di don William Carmona
L’ultimo, prima di quello che abbiamo presentato in apertura, è William Carmona, di origini colombiane. La sua è una vocazione che ha subito numerosi intoppi, ma lui, a detta di chi lo conobbe, è rimasto saldo. Quando infine, nel 2008, era stato accettato nel seminario di Nashville in Texas, sembrava avviato verso un percorso più sereno: mentre stava per iniziare il penultimo anno, però, venne attaccato da un cancro al colon. Era ormai in fase terminale presso l’ospedale Christus Santa Rosa, quando gli arrivò la notizia che monsignor David Choby, vescovo di Nashville, sarebbe arrivato per ordinarlo dapprima diacono e poi sacerdote. Il rito si svolse l’8 settembre 2014, mentre il moribondo era attorniato dal personale medico, dai compagni seminaristi e dagli altri concelebranti. Due giorni dopo, a cinquantuno anni, la sua vita si è conclusa.


Un ministero singolare

Questi uomini hanno potuto ricevere il coronamento della chiamata ricevuta, sigillo di una vita già avviata verso il servizio a tutti i fratelli. Per riprendere alcuni di loro, don Cesare fu volontario presso il Cottolengo di Torino; don Antonio, durante un periodo di vacanza in Svizzera, si rese utile aiutante nell’assistenza agli emigrati italiani; don Scott, prima di entrare in seminario, fu insegnante di Studi Sociali alle medie e allenatore di football.
I loro atti da sacerdoti non sono stati palesi come quelli di chi visita le famiglie, benedice i sofferenti, assiste i poveri. Chi di loro ha vissuto di più dopo l’ordinazione è riuscito, tramite la corrispondenza cartacea (ovviamente, negli anni ’60/’70 Internet era di là da venire), a fornire un piccolo aiuto a quanti venivano a conoscenza delle loro storie al di là della parrocchia o della diocesi di provenienza. L’unica azione che invece don Eugene riuscì a compiere, quando ormai non era più in grado di parlare, fu tracciare un segno di croce sulla mano di qualcuno.
Una chiave di lettura di questo singolare modo di vivere il ministero può essere offerta dalla rinuncia di papa Benedetto XVI, che proprio il 16 aprile ha compiuto 88 anni. Come il suo compito nella Chiesa, da due anni a questa parte, risiede nella preghiera e nell’offerta più che nell’azione fattiva, così tutti questi sacerdoti – e chissà quanti altri mancano all’appello – hanno provato a concretizzare quello che Dio aveva messo loro in cuore negli anni della gioventù o dell’infanzia, anche se per tempi più o meno ridotti.
Molti altri seminaristi, però, non sono pervenuti a quest’onore tanto grande. Sarebbe ingiusto dire che non ne erano degni; piuttosto, sono stati chiamati da Dio in un altro modo che non attraverso il sacerdozio ministeriale. Per tutti loro vale la supplica di Alessandro Galimberti, della diocesi di Milano, che domandò ai medici che l’avevano in cura per una malattia autoimmune del sangue di lasciarlo vivere il tempo di una sola Messa,
la mia Messa, una sola volta: una Messa vale tutte.

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Riflessioni successive alla pubblicazione

Una volta che l’articolo è andato in stampa, mi sono accorta di aver saltato un caso ancora più eccezionale: quello del Beato Karl Leisner, che proponevo a queste coordinate lo scorso Avvento. Volutamente, dato che il fatto di partenza riguardava un seminarista diocesano, ho escluso il Venerabile Andrea Beltrami, Salesiano, e padre Eduardo Laforet Dorda, dei Crociati di Santa Maria.
Nel frattempo, mi sono ricordata che mi chiedevo, alcuni anni fa, cosa sarebbe successo se ci fosse stata di nuovo un’ordinazione speciale in Italia. Da tre giorni ho la risposta: migliaia di visualizzazioni di filmati, “Mi piace” che si moltiplicano col passare delle ore, ma soprattutto commenti che paiono esprimere la vicinanza di un’intera nazione.
Anche riguardo ai testimoni che menzionavo prima si era verificata, dicono le fonti, una medesima sensazione di gioia mista a lacrime. Dopo quaranta o cinquant’anni, invece, il ricordo pare sbiadito: tra le considerazioni comparse sulle pagine Facebook delle principali testate cattoliche, solo due menzionavano uno don Cesare, l’altro don Antonio. Io ho provato a collegarli tra loro, sperando così di farli tornare in mente a qualcuno.
Qualcosa mi dice che, in relazione a don Salvatore, presto potrebbe uscire un racconto più esteso di quello che le cronache locali e nazionali hanno cercato di ricostruire. Addirittura, l’autore potrebbe essere lui medesimo: stando al comunicato ufficiale con cui la sua diocesi annunciava l’ordinazione, che conteneva un suo sintetico profilo biografico, lui possiede un certo talento per la scrittura. Inutile dire che me lo comprerò sicuramente!

Considerazioni finali

Insomma, so che dovrei riservare le mie lacrime e la mia capacità di raccontare storie per i poveri, per i migranti, per gli abbandonati dalla società, ma non riesco a fare a meno di occuparmi di vicende come quelle di sopra.
Qualcuno, in questi giorni, ha continuato a dirmi che devo smetterla di credere che i sacerdoti e i seminaristi siano persone dell’altro mondo. Si ammalano, si divertono, si appassionano, esattamente come i giovani più comuni. Sarà vero, ma allora la chiamata speciale che hanno ricevuto non va considerata? Non devo avere nei loro riguardi un atteggiamento diverso da quello che ho verso i miei amici laici?
Pensatela come vi pare, ma per me i preti – tutti, non solo quelli giovani – devono ricordarsi di essere anzitutto “gente che aiuta la gente”, per riprendere la canzone People help the people che, nella versione interpretata dalla cantante Birdy, pare che don Salvatore apprezzasse tantissimo, come riporta questo articolo.

AGGIORNAMENTO (29/06/2015): don Salvatore è morto alle 15.15 di oggi. Non sciacallerò né speculerò sulla sua storia più di quanto abbia già fatto (anche se un profilino biografico mi piacerebbe scriverlo), ma una cosa posso farla: condividere il suo ultimo articolo sulla rivista della sua parrocchia
Riposi in pace!

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