Squarci di testimonianze #3: un prete e i suoi “poveracci”
Sull’ultimo
numero di «VOCI», il giornale della mia Comunità Pastorale, composta dalle
parrocchie milanesi di San Barnaba in Gratosoglio e Maria Madre della Chiesa, ho scritto un articolo sul parroco, don Marcellino Brivio. Nella
nostra Diocesi è una piccola celebrità, a ragione del suo lungo impegno a
favore di carcerati e poveri di ogni sorta. Ma com’è sorta la sua passione per
queste persone? Che cosa l’ha spinto a prendere la via del sacerdozio? Ho provato a fornire una
risposta nel testo che segue.
I lettori che seguono VOCI dal numero
0 sanno che don Marcellino, il nostro parroco, aveva promesso di ritornare
sulla sua passione per le persone messe ai margini dalla società, che lui stesso
definì in quella sede col termine di “poveracci”. I suoi numerosi impegni,
tuttavia, lo hanno costretto a rimandare nei numeri seguenti.
Quando però noi della Redazione
abbiamo appreso che sarebbe stato invitato a raccontare la sua esperienza il 28
novembre scorso, nell’ambito degli incontri di catechesi per i giovani della
cosiddetta “area omogenea” di Gratosoglio presso la parrocchia di Sant’Antonio Maria Zaccaria, non abbiamo perso l’occasione per riportare, almeno in sintesi,
quanto ha detto.
Don Marcellino e Silvia, una dei miei compagni del Gruppo Giovani |
Don Marcellino ha esordito
raccontando come la sua attenzione per le situazioni di marginalità possa
essere considerata quasi un vizio di famiglia. Nato e vissuto a Imbersago, tra
la bergamasca e la Brianza, ha vissuto in pieno la fase in cui il paese ha ricevuto
una forte immigrazione soprattutto dal Sud Italia, mentre il lavoro nei campi
diminuiva e cresceva il lavoro nelle fabbriche lungo le vie ferroviarie.
I suoi genitori, oltre che piccoli
contadini, erano insegnanti, soprattutto il padre. Quel mestiere gli servì
proprio per far arrivare tantissimi emigrati a conseguire la licenza
elementare. Più in generale, ha affermato che casa sua è stata “il luogo
fisico, umano e sociale” dove lui e i suoi numerosi fratelli capivano concretamente
come aiutare chi era nel bisogno. “Bisogna quindi stare attenti all’aria che
respiriamo”, ha concluso: è attraverso il concreto esempio reciproco,
l’esperienza normale in un contesto quotidiano che s’impara.
La seconda parte del suo intervento
è stata maggiormente incentrata sulle storie di vita, che contengono al loro
interno volti e nomi. Queste realtà non vivono chissà dove, ma nel nostro
contesto, dove ci sono strutture che emarginano, cioè che buttano fuori (anche
che “buttano dentro”, come il carcere). Occorre, quindi, che diventiamo capaci
di partire dalla concretezza della vita, non solo dalle analisi sociologiche,
ma neppure dalle chiacchiere da bar.
Tutto questo c’entra con delle
persone, specie giovani, che vogliono essere discepole di Gesù. Lui, ha
proseguito don Marcellino, è nato “fuori”, è morto “fuori”, è stato con persone
di un certo tipo, fatto che l’ha costretto a subire vere e proprie accuse: per
usare le sue stesse parole, “ridefinisce i rapporti sociali a partire dagli
ultimi”. In questo senso il gruppo, la comunità cristiana, quelle poche
relazioni significative costituiscono il luogo dove imparare a comprendere gli
altri.
Concluso l’intervento, c’è stato
spazio per le domande. Don Martino Rebecchi, coadiutore dell’Oratorio
Sant’Antonio Maria Zaccaria, ha chiesto come far passare questi concetti ai
ragazzi che sono affidati agli educatori. Don Marcellino ha risposto a partire
dalla sua precedente esperienza pastorale come parroco: destinato a Quintosole
e occupandosi dell’assistenza spirituale del carcere di Opera, notò che i
bambini che frequentavano il catechismo erano tre per anno. Insieme agli
educatori, decise di aprire un confronto tra la parrocchia, il carcere, il
campo rom e una sede dell’Istituto Europeo Oncologico. Insomma, a suo dire
serve far provare ai ragazzi tante piccole esperienze per scatenare in loro le
emozioni e le passioni. “Tanti fanno Scienze dell’Educazione, ma più per fare
gli scienziati o gli educatori?”, si è chiesto.
A quel punto, è sorta quasi
spontanea la domanda sul perché avesse deciso di diventare sacerdote. Il primo
germe della vocazione è sorto quando, in quinta elementare, il piccolo
Marcellino udì la testimonianza di un religioso ottantenne, fra Remigio, rimpatriato
per curarsi dalla malaria contratta nel Malawi e invitato a parlare dal papà
che era anche il suo maestro. Quasi con un tono di appello, concluse: “Io
morirò, ma chi mi sostituirà per insegnare il Vangelo ai bambini di lì?”. In
pratica, si trattò di un vero e proprio contagio di bene.
Don Giovanni Salatino, il nostro
prete d’oratorio, ha invece intuito che c’è stata una fase in cui lui tendeva a
denunciare: gli ha chiesto, perciò, se è un comportamento utile e in quali
casi. La sua risposta è stata che, appena iniziato il lavoro in carcere, aveva
pensato di distruggere tutto, ma se ciò fosse accaduto, sarebbero stati
danneggiati anche gli ospiti della struttura. Allora capì che doveva restare,
per cercare di capire come cambiarlo dall’interno. La protesta, ha concluso,
deve diventare proposta e inserirsi in un modo diverso di stare al mondo.
I giovani sembravano aver ascoltato
con molto interesse il racconto di don Marcellino, forse proprio perché, dal
tono con cui parlava, lasciava capire davvero la passione che l’anima, quella
stessa che capita di notare a molti di coloro che vivono nelle nostre due
parrocchie.
(di Emilia Flocchini,
originariamente pubblicato su «VOCI» n.
1-2014, p. 3)
EDIT 20/10/2015: Dal 1° settembre scorso don Marcellino si occupa di un'altra categoria di fedeli che gli sta molto a cuore: i suoi fratelli nel sacerdozio. Ha infatti ricevuto l’incarico di Collaboratore del Vicario Episcopale per la Formazione Permanente del Clero per la Comunità Ripartire, una realtà promossa dalla Conferenza Episcopale Lombarda per accompagnare il reinserimento nel ministero di sacerdoti in difficoltà.
Mi è un po’ dispiaciuto, dato che lo conoscevo da neanche tre anni, ma dato che condivido interamente l’intento con cui sta iniziando ad operare, sono stata felice.
Peraltro, Ripartire ha sede a Villa Iride, a Verbania, un tempo comunità della Congregazione di Gesù Sacerdote: eredita quindi la missione dei figli di padre Mario Venturini, di cui ho parlato qui.
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