Tre domande a… suor Daniela Sanguigni, figlia di un prete santo
Chi è?
Suor Daniela non è la ragazza coi capelli raccolti, ovviamente. |
Daniela Sanguigni
è nata il 21 novembre 1977 a Terracina ed è cresciuta a San Felice Circeo, un
paese sulla costa laziale, in provincia di Latina. Nell’adolescenza ha aiutato
uno zio nello stabilimento balneare da lui gestito. Nel 2001, mentre completava
gli studi in economia, si è trasferita a Milano per iniziare uno stage e ha
trovato alloggio in un pensionato per studentesse e lavoratrici dell’Acisjf (Associazione
cattolica internazionale al servizio della giovane), situato in corso Garibaldi.
La struttura era gestita, e lo è tuttora, dalle suore Figlie dell’Oratorio,
fondate da san Vincenzo Grossi perché fossero d’appoggio ai parroci
nell’educazione delle ragazze, specie quelle più abbandonate.
Frequentando il
pensionato e partecipando alle attività proposte dalle suore, mentre lavorava
come analista finanziario (in quanto nel frattempo lo stage si era tramutato in
un contratto a tempo indeterminato), Daniela iniziò a farsi qualche domanda più
seria sul suo futuro. L’evento decisivo furono alcune giornate di ritiro con
altri giovani a Villa Immacolata di Castelveccana, casa di esercizi spirituali
delle Figlie dell’Oratorio in provincia di Varese.
Nel 2007, quindi,
iniziò il suo percorso di discernimento, che la portò a visitare molte comunità
dell’istituto e, nel 2008, a trasferirsi come aspirante nella comunità di
Prato. Nel 2009, durante una breve esperienza missionaria nella comunità di
Nueve de Julio, in Argentina, proprio mentre si stava inserendo in quel Paese, ebbe
una recrudescenza del morbo di Crohn, di cui aveva già sofferto nel 2004. Così fu
costretta a tornare in Italia e fu ricoverata nell’ospedale Sacco di Milano. Tra
una ripresa e un’operazione, tra una novena e un messaggino con l’aggiornamento
sulle sue condizioni, poté infine essere dichiarata fuori pericolo, pur con
l’obbligo di sottoporsi a controlli periodici.
Proprio cinque
anni fa, il 7 novembre 2010, nella cappella della Casa madre delle Figlie
dell’Oratorio a Lodi, Daniela poté iniziare il Postulandato, che svolse poi in
Basilicata, a Sant’Arcangelo, mentre il 7 novembre 2011 ci fu il suo ingresso
ufficiale in Noviziato. Fu inizialmente destinata alle comunità di Codogno, per
collaborare nella scuola primaria, e di Lodi, per la vita di parrocchia che è
il compito principale di una Figlia dell’Oratorio. Ha poi trascorso i mesi
estivi del 2013 di nuovo in Basilicata, ma a Policoro, a contatto con gli
ospiti della casa per ferie. Il 7 novembre dello stesso anno ha poi emesso la
professione dei primi voti e da allora svolge il suo apostolato a Codogno,
nella scuola primaria e in parrocchia.
Cosa c’entra con me?
Non sto a
ripetere come ho fatto a conoscerla e come, mediante lei, mi sia sentita più
legata al suo fondatore, perché l’ho già scritto qui. Voglio però riproporre qui un’intervista che le ho
fatto proprio nell’imminenza della canonizzazione, ma che ho deciso di
pubblicare oggi, nella prima memoria liturgica di don Vincenzo Grossi come
Santo.
Ricordi la prima volta che le suore ti hanno
parlato di don Vincenzo?
Nel pensionato di
corso Garibaldi erano presenti dei quadri raffiguranti don Vincenzo e Madre
Ledovina Scaglioni, la suora che può essere considerata la co-fondatrice delle
Figlie dell’Oratorio. Naturalmente mi chiedevo chi fossero. Le suore, in
particolare suor Lina, mi parlarono di don Vincenzo prima di tutto attraverso
delle massime, delle citazioni del suo pensiero e del suo agire che mi
colpirono molto: «Siate buone, ilari, servizievoli anche in mezzo ai vostri
dolori», oppure: «Vi sia nell’anima tua un bel sereno, nulla ti turbi»; «Sia
questo il vostro programma: la croce qui, la gioia lassù, l’amore dappertutto»
e così via.
Come tutte le
consorelle, una grande gioia ha avvolto anche me alla notizia che sarebbe
diventato Santo. Tutte, infatti, lo consideravamo tale, avendo ricevuto
ciascuna, per sua intercessione, tante grazie, ma il riconoscimento della sua
santità da parte della Chiesa universale è stato ulteriore motivo di immensa
felicità per tutte.
Quali sono gli aspetti della sua vita e della sua
spiritualità che ritieni più vicini a te? Quali, invece, quelli in cui senti di
dovergli assomigliare di più?
L’aspetto della
sua vita che ritengo più vicino a me è il riferimento alla gioia, alla letizia
spirituale, alla giovialità. Gioviale è colui che è abitualmente lieto,
piacevole, sereno, che prova una gioia interiore che si esprime all’esterno
attraverso la letizia del volto, dell’aspetto, della parola… Tutto nella
religione cristiana è Gioia e anche dalla Croce si ricava Gioia. Questo
insegnava don Vincenzo alle sue suore, tanto da scegliere come protettore
dell’Istituto proprio San Filippo Neri, il Santo della letizia spirituale.
Un altro momento della vita di suor Daniela coi suoi ragazzi |
Di questo, sono
stata da sempre convinta sostenitrice anch’io, quando mi chiedevo come rendere
testimonianza al Signore, molto tempo prima di conoscere don Vincenzo e le sue Suore.
Chiedendomi, infatti, da che cosa si dovesse distinguere, tra le masse, un
cristiano, mi rispondevo che il segno distintivo è la Gioia, perché tutto, nel
cristianesimo, è gioia… Chi sa di avere un Dio che è Padre, non può che vivere
nella gioia al pensiero di essere amato così, e senza fine deve rendere grazie
a Dio di questo Amore cantando sempre le sue lodi.
Ciò non significa
che un cristiano non possa sperimentare desolazioni, tristezza o crisi di Fede,
anzi. Ma un cristiano che ha sperimentato desolazioni e consolazioni sa che lo
stato delle desolazioni non durerà per sempre, e che egli ha tanti strumenti a
disposizione per “ripristinare la Gioia”, dissipare i turbamenti e sentirsi
ancora amato (Riconciliazione, Eucaristia, colloqui spirituali, letture
spirituali…). L’aspetto della spiritualità di don Vincenzo in cui sento di
dovergli assomigliare di più, invece, è lo spirito di riparazione, che consiste
nel “risarcire gli oltraggi recati al Signore con il peccato proprio e altrui,
attraverso l’offerta della sofferenza, delle umiliazioni, delle incomprensioni”.
Nella mia esperienza di fede, prima di entrare nell’Istituto, non avevo mai
sentito parlare dello spirito di riparazione. Sentendone parlare, ho potuto
offrire al Signore, con questa consapevolezza, molto di quanto mi ha chiesto
nelle prove che mi ha fatto sperimentare, soprattutto nel tempo della malattia,
traendo al tempo stesso anche la forza e la serenità per affrontarle meglio.
Sento però di dover ancora crescere in questo spirito principalmente nella
riparazione “quotidiana” e più ordinaria, per i miei peccati e per quelli del
mondo.
Di recente hai partecipato all’incontro mondiale
dei giovani religiosi e consacrati sul tema “Vangelo, profezia e speranza”.
Quali credi che siano la profezia e la speranza, appunto, incarnate da san
Vincenzo?
Don Vincenzo
aveva una dedizione totale nei confronti di coloro che Dio gli aveva affidato,
parrocchiani, penitenti, giovani, amici sacerdoti, suore. Il suo contegno, l’affabilità
del suo volto e lo sguardo luminoso, riflesso di un’anima tutta di Dio,
ispiravano nelle persone che gli si rivolgevano una grande fiducia.
Ciò gli ha
permesso di essere “padre”, di iniziare i fedeli alla vita cristiana e le sue
figlie alla vita religiosa, trasmettendo loro atteggiamenti interiori,
sensibilità, comportamenti e stili di vita basati sulla propria esperienza di
Dio, attraverso la predicazione, la catechesi ma soprattutto la confessione, la
guida e la direzione spirituale. Alla luce dello Spirito Santo, egli esortava,
correggeva, ammoniva, rimproverava, consigliava, sdrammatizzava con grande
serenità, calma e prudenza.
Questa sua
paternità spirituale ha superato i limiti di tempo e di spazio perché ha
coinvolto le generazioni a lui contemporanee e quelle successive. Le Figlie
dell’Oratorio di ogni tempo sono infatti chiamate ad essere segno di una
paternità e una maternità che continua sulla sua scia.
Così anche
ciascuna di noi, oggi, è esortata ad apprendere alla scuola di don Vincenzo
quello stile, quella dedizione al prossimo, quella capacità di costruire
relazioni che non è altro che la “mistica della vicinanza” tanto desiderata da
papa Francesco per tutti i consacrati.
Noi dobbiamo
essere madri soprattutto verso la gioventù che frequenta i nostri oratori e le
nostre scuole, perché don Vincenzo ci ha affidato un compito educativo, ma non
dobbiamo avere timore di avvicinarci a chiunque viva situazioni di bisogno
nelle “periferie esistenziali”. Non possiamo esimerci verso nessuno dal parlare
e testimoniare al mondo un Dio che è Amore, comunione, gioia.
Concludo
invitandovi a guardare un altro filmato tratto da Laus, notiziario della diocesi di Lodi, con un breve intervento di
suor Daniela.
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