Giulio Rocca, dell’Operazione Mato Grosso – Morire per gli altri (Cammini di santità # 7)
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Ai
motivi per cui mi sento devota a san Giovanni Bosco se n’è aggiunto, da un
annetto circa, un altro: il mio primo vero lavoro regolarmente retribuito è
proprio per una rivista legata alla congregazione dei Salesiani, da lui
fondata.
L’articolo
uscito sul numero di gennaio 2017 di Sacro
Cuore VIVERE (o solo VIVERE, se
preferite) ha avuto una lunga gestazione. Inizialmente previsto per il numero
di dicembre 2016, doveva in realtà affrontare due storie in parallelo: quella
di Giulio Rocca e quella di don Daniele Badiali, amici e compagni nell’Operazione
Mato Grosso, legata ai Salesiani per i motivi che spiego più avanti.
Quando
poi il direttore ha cambiato parere, invitandomi a scrivere del cardinal Ernest Simoni, mi ha anche chiesto di scorporare i due soggetti e di dedicare a
Rocca da solo il primo articolo per il mio secondo anno di collaborazione; don
Badiali slitta, a Dio piacendo, al 2018.
Per
una coincidenza che ha per certi versi del provvidenziale, un mio amico di
Facebook ha pubblicato, qualche settimana fa, un post in cui raccontava
dell’incontro con il signor Oliviero Rocca, ancora oggi artigiano del legno, che
non dimentica il messaggio lasciato da suo fratello Giulio. Ecco quindi il mio
tributo a lui, proprio nel giorno in cui ricordiamo don Bosco.
* * *
Sono
le 22 del 1° ottobre 1992. Cinque uomini armati irrompono nella casa di alcuni
missionari a Chacas, in Perù. Chiedono di un tal Giulio e un sacerdote, padre
Ernesto, ma in casa ci sono solo quattro donne, volontarie in missione, e le
due figlie piccole di una di loro. Dopo un’ora arriva il volontario che
cercano: osserva sgomento il saccheggio operato da quegli uomini. Cerca di
farli ragionare, ma loro hanno solo parole insultanti, come: «Il Perù ha
bisogno della ribellione degli oppressi» e «Così accontentate i poveri e fate
un lavoro contrario a ciò che vogliamo noi».
I
terroristi, appartenenti a Sendero Luminoso, obbligano le donne a salire al
piano di sopra: Giulio, invece, viene fermato e costretto ad accompagnarli con
la camionetta della missione. Verso le 2.45 del 2 ottobre viene trovato morto,
riverso sotto la camionetta, dal lato opposto della guida. Accanto al cadavere,
un cartello con scritte minacce contro le organizzazioni caritative.
Le prime esperienze
Giulio
Rocca viene dalla Valtellina, precisamente dal paese di Isolaccia Valdidentro,
vicino a Bormio, dov’è nato nel 1962. La sua famiglia è di condizioni umili ed
è molto religiosa. Tuttavia, pur in questo contesto, il ragazzo prende una
strada opposta, dandosi al bere e al godimento della vita: cerca libertà e
felicità.
A
sedici anni, per fare nuove amicizie, decide di entrare a far parte di un
gruppo dell’Operazione Mato Grosso (in sigla, OMG) nel suo paese. Si tratta di
un movimento giovanile nato da un appello di aiuto lanciato nel 1964 da un
sacerdote salesiano, don Piero Melesi, missionario a Poxoreo, in Brasile. Il
suo grido, anzi, il grido dei suoi poveri, viene raccolto da un suo
confratello, don Ugo De Censi, che tre anni dopo inizia a formare alcuni
giovani tramite esperienze di servizio in Brasile sostenute in Italia con il
lavoro e la raccolta di rottami da rivendere per ricavare fondi.
Gradualmente,
però, Giulio si accorge che alla motivazione iniziale si è aggiunto altro. Così
scrive in seguito a monsignor José Ramon Gurruchaga, vescovo di Huari:
«Seguendo questo cammino scoprii, poco alla volta, altri valori che per me ora sono
fondamentali, come il lavoro, il sacrificio, la ricerca di un senso vero per
vivere e, in quest’ultimo anno, i valori religiosi».
In Brasile, poi in Perù
Si
diploma in Agraria, poi parte: la sua prima destinazione è Paredão in Brasile,
per l’esperienza iniziale dei “quattro mesi”. A qualcuno sembra una fuga da
quello che sua madre, malata di tumore, è certa di aver intuito in lui: la
vocazione al sacerdozio. Effettivamente, Giulio andava spesso nel seminario dei
Camilliani a Verona, dove aveva fatto amicizia con un religioso poi sacerdote,
Claudio Martinelli. Ogni incontro con lui lo lasciava scosso e pensoso. Poco
dopo il rientro dal Brasile, a fine 1985, la mamma muore.
Nell
‘88 Giulio riparte: va in Perù, a Chacas, nella diocesi di Huaraz. Da poco ha
conosciuto una ragazza, Noce, con la quale sembra cominciare una storia
d’amore. Quando lei gli comunica che vuole farsi religiosa, soffre non poco, ma
capisce di doverla lasciare libera di seguire il suo cammino e lui si dona
totalmente ai ragazzi del Taller “Don Bosco”, una scuola di falegnameria con
internato. A casa lavorava con suo fratello che aveva un laboratorio di
artigianato del legno, quindi conosce bene i trucchi del mestiere. Diventa poi
supervisore dello smistamento dei materiali tra le varie missioni, restando di
base nella casa parrocchiale di Jangas. Col suo inseparabile cappello, i
pantaloni un po’ sdruciti e ai piedi gli “llanquies”, i sandali tipici dei
contadini delle Ande, va ogni giorno a fare la spesa al mercato di Huaraz, la cittadina
principale: sorride e scherza con tutti, anche con i commercianti e i
cambiavalute.
Un “SÌ” in lettere maiuscole
La
sua inquietudine interiore, però, continua; sono mesi che non si accosta ai
sacramenti: ma finalmente il 23 giugno 1992 decide di scrivere a padre Ugo, per
intraprendere un vero cammino di conversione. Termina la lettera, poi aggiunge
un post scriptum breve e incisivo: è un “SÌ”, scritto in lettere maiuscole.
All’inizio
del settembre 1992 partecipa a un ritiro guidato da padre Ugo, insieme agli
altri ragazzi e giovani del luogo che desiderano diventare preti. Rivela a
tutti la sua intenzione di entrare in Seminario. Nella sua lettera, datata 27
settembre 1992, si apre dunque a monsignor Gurruchaga vescovo di Huari a cui
comunica la sua intenzione e chiede consiglio: «A trent’anni mi sembra – scrive
– che nulla abbia maggior valore che seguire Gesù, lo desidero tanto per
riempire il vuoto che è rimasto in me, buttando via tutto ciò che è inutile. Ho
paura che tutto finisca presto e di non aver fatto bene. Non voglio perdermi
per sempre. Per questo non mi preoccupa il non avere beni materiali che, alla
fine rimangono come un peso che non mi aiuta a camminare verso Dio e verso gli
altri. Così il fatto di vivere solo non mi spaventa, anzi lo accetto come
condizione indispensabile per poter seguire questo cammino».
“Martire della carità”
L’impegno
di padre Ugo per i poveri e il lavoro dei volontari sono malvisti dai
rivoluzionari di “Sendero Luminoso”, che sfruttano la rabbia dei poveri per le
loro folli ambizioni e vogliono eliminare questi giovani e i loro preti che
stanno dando dignità e coscienza ai poveri.
I
terroristi per quattro volte visitano la missione, con intenzioni ben poco
amichevoli. Giulio discute con loro e saltando in piedi esclama: «Noi siamo
contro la violenza, sia che venga da voi o dalla polizia. Perciò, quando
entrate in questa casa le armi non le vogliamo vedere, perché qui ci sono donne
e bambini». È la sua condanna a morte.
La
notizia del rinvenimento del suo corpo si diffonde già dalle 6 del 2 ottobre
1992; padre Ugo è tra i primi ad apprenderla. Tutti i volontari sono presi da
sgomento, angoscia, incredulità. Alla fine, pur tra le lacrime, i missionari e
i volontari maturano la convinzione che Giulio non sia morto invano e decidono
di restare e continuare.
Nel
fax con cui annuncia l’arrivo della salma in Italia dal Perù, padre Ugo scrive:
«Accogliete il corpo di Giulio come quello di un martire della carità». E
ancora oggi i membri dell’OMG lo considerano un martire, perché ha
concretizzato pienamente i sette punti chiave dell’OMG, specie l’ultimo:
«morire per gli altri».
Originariamente pubblicato
su «Sacro Cuore VIVERE» 1 (2017), pp. 16-17 (sfogliabile qui)
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