Anch’io sono «Cresciuta in oratorio»

Un'immagine che esemplifica il mio pensiero (o meglio, la mia difficoltà a fare sintesi)
ma ha anche un'altra ragione (vedi sotto)
Lo scorso 31 gennaio, nella memoria liturgica di san Giovanni Bosco, è stata lanciata l’iniziativa Cresciuto in oratorio. Lo scopo è raccogliere testimonianze, scritte o filmate, di come questa realtà educativa aiuti a crescere in maniera sana e completa e incida sulla società.
In parallelo sono stati lanciati un concorso video, con la collaborazione del comico Giacomo Poretti, uno per i gruppi musicali oratoriani, con la giuria presieduta dal cantautore Davide Van de Sfroos, e uno giornalistico, curato dalla redazione milanese de Il Giorno.
Dato che oggi, alla trasmissione televisiva Siamo Noi di TV 2000, si parla proprio di oratori, ho deciso di dare fondo alla mia memoria per raccontare in prima persona quale sia stata la mia esperienza a riguardo.
Le domande a cui i partecipanti all’iniziativa devono rispondere sono due: cosa sono diventato grazie all’oratorio e cosa ho imparato a fare lì. A me viene da invertirle, o meglio, da unificarle: è in base a quello che ho imparato a fare che sto diventando pian piano quello che, sotto sotto, ho sempre desiderato essere, costantemente appoggiata dalla comunità cristiana in cui sono nata e da quella in cui ora vivo.
In fondo, il Sinodo 47° della Diocesi di Milano così si esprime a riguardo (cap. XI, 199, § 2):

L'oratorio diventi sempre più luogo privilegiato per la cura pastorale di questi ragazzi, adolescenti e giovani. In esso sia viva l'attenzione all'intensità e al metodo della proposta educativa e all'identificazione di significative figure educative di riferimento.
Ho imparato a cantare

La mia esperienza in oratorio è iniziata nel 1992, quando sono stata iscritta al catechismo in preparazione alla Prima Confessione. Per quasi tutta la durata del percorso dell’Iniziazione Cristiana, però, non lo frequentavo molto, al di là delle lezioni. Non mancavo mai alla Messa dei bambini, in compenso.
Già da allora cercavo di distinguermi dalla massa: don Maurizio, che all’epoca era assistente degli oratori – avevamo ancora sia la parte maschile che quella femminile separate – aveva l’uso di fare delle domande ai bambini nel corso dell’omelia. All’epoca non sapevo che quella modalità non era corretta, ma intervenivo spesso, rispondendo esattamente il più delle volte. Le catechiste si stupivano parecchio, ma dovevano anche ricordarmi di lasciare spazio agli altri.
Dev’essere stato anche per questa ragione che suor Caterina, la Figlia della Carità di San Vincenzo de Paoli che seguiva l’oratorio femminile, m’invitò a entrare nel “coretto” dei piccoli. L’ho fatto solo dopo la sua partenza per una nuova destinazione, quando ero prossima a ricevere la Cresima.
Di conseguenza, credo che la prima cosa che ho imparato in oratorio è stata cantare. Il direttore, don Maurizio (non quello di prima, un omonimo), suggeriva a noi bambine di stare bene attente alle parole che cantavamo e di cercare di capirne il senso. Non ho mai lasciato il coro, anche perché aspettavo di avere l’età giusta per cantare, coi grandi, i pezzi composti da monsignor Luciano Migliavacca, di cui sentivo un gran parlare.

Ho imparato a recitare

Nel Natale della mia prima media è avvenuto un fatto che ha marcato il mio impegno in maniera più forte: mancava una comparsa per lo spettacolo natalizio, quindi sono andata per la prima volta in scena.
Dall’anno successivo, non sono stata più una semplice comparsa, ma membro effettivo della compagnia teatrale parrocchiale, ovviamente nella sezione dei ragazzi. Sentivo quel nuovo impegno come un modo per far capire a tutti, specie a qualcuno che mi prendeva in giro a scuola, che non ero solo una tontolona piagnucolona.
Tuttavia, forse perché non ero “figlia d’arte”, non ho mai avuto ruoli da protagonista. Ho deciso di non abbattermi, lavorando sull’immedesimazione col personaggio, in modo da poter risaltare lo stesso sul palco. In effetti, qualcuno ricorda ancora la mia interpretazione della servetta toscana Gertrude in Non facciamo promettere le vedove, o i miei goffi tentativi di atteggiarmi a seduttrice nei panni di Mut, moglie di Putifarre, ne Il sogno di Giuseppe.
Ho smesso poco prima di cambiare casa, portandomi dietro un complimento non da poco: Giovanni Storti, fratello di uno dei collaboratori del teatro (adesso capite il perché del meme di copertina?), che si complimentava col nostro regista perché gli sembravamo una bella squadra.

Ho imparato a raccontare la Chiesa

Molto tempo dopo, ormai cresciuta, ero alla ricerca di un servizio speciale da compiere, oltre a quello canoro e a quello teatrale. Come animatrice dei bambini ero risultata incapace, a causa dell’ira che mi prendeva quando vedevo che non seguivano le mie indicazioni; non ho mai picchiato nessuno, beninteso.
Questo fatto mi precluse una delle mie maggiori aspirazioni, ovvero fare la catechista. Apparentemente relegata a compiti d’ufficio, mentre i miei coetanei erano diventati educatori o aiuto-catechisti, ho potuto disseppellire un talento che credevo di non poter mai esercitare.
Nel 2006 ho partecipato alla beatificazione di monsignor Luigi Biraghi e di don Luigi Monza, in piazza del Duomo a Milano. Mi venne spontaneo chiedere al mio parroco di poter scrivere qualcosa a riguardo sull’informatore parrocchiale: dopotutto, era la prima cerimonia di beatificazione sul territorio diocesano, dopo le nuove norme promulgate l’anno precedente.
Quel pezzo aveva non poche ingenuità, come nel punto in cui scrivevo (vado a memoria): «Ora per me Biraghi non è più solo una marca di formaggi e Monza non è più solo una città». Comunque, da allora mi sono sentita presa dal desiderio di raccontare quanto accadeva a livello ecclesiale, anche piccolo, fosse la descrizione di una lezione-tipo al catechismo, con irruzioni da reporter improvvisata nel pieno di una lezione, o l’intervista a un bambino appena entrato nei pueri cantores della Cappella Musicale del Duomo.
Per migliorare la mia tecnica, mi sono iscritta per la prima volta ai corsi per Operatori Pastorali della Comunicazione. A volte i miei tentativi di mettere in pratica quello che ho imparato funzionano, altre volte meno.

Cosa sento di essere diventata

La passione per la scrittura mi ha poi condotta a diventare un’agiografa dilettante, andando a caccia di storie interessanti da condividere con tutti quelli che mi avrebbero letto.
Così si è realizzato in parte uno dei miei sogni da bambina, vale a dire scrivere le storie dei Santi come i miei autori prediletti dei Fiori di Cielo editi dalle Paoline. Che male c’è se non sognavo, ad esempio, di fare la ballerina?
Sento, a volte, che questo mio servizio non sia pienamente riconosciuto, oppure venga sfruttato e basta. Io però non mi arrendo, perché il fuoco nelle ossa che sento di avere è sorto anche grazie alla mia vita in oratorio e continua anche ora.

Concludendo

Ogni tanto ritorno nel mio oratorio di nascita, perlopiù in occasioni di festa. Poco o nulla è come mi ricordavo: nel giro di sei mesi è stato cambiato il campo da calcio, si svolgono iniziative culturali e perfino la campagna Cresciuto in oratorio è partita proprio da lì.
Anche se le forme sono cambiate, però, sono certa di quel pensiero del giornalista Vittorio Zucconi, che fino a tre anni fa compariva, invariabilmente, sui volantini d’iscrizione al catechismo o su quelli per l’Oratorio Estivo:
No, nessuno di noi ragazzi divenne santo (per ora), beato, venerabile, sacerdote, diacono e neppure sacrestano, nonostante gli eroici sforzi del parroco Pollastro per convincermi che da qualche parte in me fosse nascosta la Chiamata (anche lui aveva i suoi limiti, povero prevosto), ma molti di noi impararono a diventare uomini. E di più non si può pretendere.
Se poi si arriva anche sugli altari è una grazia in più, aggiungo io.

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