Kateri Tekakwitha, innamorata di un unico Sposo e prezioso tesoro nella natura

L’unico ritratto noto di santa Kateri,
dipinto intorno al 1690
da padre Claude Chauchetière
nonché immagine ufficiale della canonizzazione
(fonte)

Chi è?

 

Nacque intorno al 1656 nel villaggio di Ossenernon, oggi Auriesville nello Stato di New York, figlia di padre Mohawk e madre algonchina; quest’ultima era cristiana ed era stata rapita durante una razzia.

A quattro anni perse la sua intera famiglia (padre, madre e fratello minore) per un’epidemia di vaiolo; lei sopravvisse, ma col volto sfigurato e con problemi alla vista. Visse da allora con la famiglia di uno zio, spostandosi in vari insediamenti, fino a quello di Caughnawaga o Kahnawake, nell’attuale territorio del Canada.

Uno dei possibili significati del nome che le fu dato, Tekakwitha, è “colei che mette le cose in ordine” e rimanderebbe quindi alla sua abilità nei lavori manuali, oppure, in riferimento ai suoi impedimenti nella vista, “colei che cammina facendosi strada”.

Nel 1675 alcuni gesuiti francesi, missionari in Canada, giunsero nel suo villaggio. I loro racconti la affascinarono tanto da condurla a rifiutare varie proposte di matrimonio, fatto insolito per gli usi del suo popolo. Il 16 aprile 1676 ricevette il Battesimo: il suo nome cristiano fu Caterina, anzi, Kateri in lingua irochese.

Lo zio non si era opposto, a patto che non lasciasse il villaggio. Quando però la persecuzione e l’ostilità da parte dei parenti e degli altri membri le parve insostenibile, Kateri fu aiutata a fuggire nella missione di San Francesco Saverio, a Sault St-Louis, oggi in territorio canadese.

Lì trascorse il resto della sua vita, lavorando, mortificandosi e pregando a lungo sia nella cappella del villaggio, sia in mezzo ai boschi. Ricevette la Prima Comunione nel Natale del 1677, mentre il 25 marzo 1679 consacrò pubblicamente e solennemente a Dio la propria verginità. Fu aiutata nel suo cammino da due dei gesuiti della missione, padre Pierre Cholenec, il superiore, e padre Claude Chauchetière, autore anche dell’unico suo ritratto coevo.

Morì il 17 aprile 1680, Mercoledì della Settimana Santa, a circa ventiquattro anni, in seguito alla sua ultima e dolorosa malattia, che accettò con gioia. Per il suo attaccamento a Gesù come unico Sposo, divenne nota come “il giglio dei Mohawk”.

Fu beatificata da san Giovanni Paolo II il 22 giugno 1980 e canonizzata da papa Benedetto XVI il 21 ottobre 2012; era la prima nativa americana a essere dichiarata Santa. I suoi resti mortali sono venerati nel Santuario Nazionale a lei dedicato a Caughnawaga nel Québec, sul luogo dell’antica missione di San Francesco Saverio. La sua memoria liturgica ricorre invece il 17 aprile, giorno della sua nascita al Cielo.

 

Cosa c’entra con me?

 

Non ricordo e nemmeno riesco a risalire alla data esatta in cui ho sentito per la prima volta parlare di Kateri; probabilmente era intorno al 2007. Di sicuro, avevo visto la sua scheda su santiebeati.it, ma non saprei affermare se sia stato quello il mio punto di partenza o meno.

Altrettanto con vaghezza, ricordo che avevo scaricato un file che conteneva una sua biografia, molto romanzata, in formato .doc. Ai tempi non avevo ancora una connessione Internet a casa, per cui mi dedicavo a quelle ricerche approfittando del laboratorio informatico dell’università, mentre lavoravo alla tesi della laurea triennale.

Tornata a casa, cominciai a leggere quella biografia, ma mi resi conto che era stata digitalizzata in scriptio continua, per così dire: in pratica, non c’erano a capo, neanche in corrispondenza dei trattini che indicavano i discorsi diretti dei personaggi. Gli unici paragrafi erano indicati dai titoli dei capitoli.

Mi misi allora a rivedere quel testo, anche per mandarlo, una volta corretto, al sito da cui l’avevo scaricato. Non so per quale ragione, però, il mio computer si bloccava ogni volta che cercavo di andare avanti; di conseguenza, anche per concentrarmi sulla tesi, lasciai perdere.

La sua storia mi tornò alla mente quando acquistai Il paradiso siamo noi, di Matteo Liut: alle pagine 48-50 c’era un suo breve profilo, inserito nel capitolo Testimoni fino al martirio. In realtà, anche se i maltrattamenti da parte dei parenti e degli altri del villaggio rassomigliano a un atteggiamento persecutorio (non le furono risparmiate neanche le calunnie a sfondo sessuale), non è stata beatificata in quanto martire: per beatificarla fu concessa la dispensa sui due miracoli all’epoca necessari, a fronte di una perdurante e sicura fama miraculorum.

A parte questo, effettivamente, essendo tornata a Dio a circa ventiquattro anni, Kateri rientrava nel criterio che si era dato l’autore, ossia trattare giovani Beati e Santi morti tra i diciotto e i trent’anni, l’età abituale dei partecipanti alle varie Giornate Mondiali della Gioventù. Non solo: era stata annoverata tra i Patroni della GMG del 2002, svolta a Toronto, proprio perché aveva vissuto nel territorio dell’attuale Canada.

All’incirca nello stesso periodo, scoprii il blog Una penna spuntata. Quell’anno Lucia Graziano, la curatrice, decise di affrontare, per ogni fine settimana del mese di ottobre 2011, le storie di personaggi esemplari, non necessariamente dichiarati Santi o Beati, abbinandoli a una delle decine del Rosario Missionario. L’allora Beata Kateri fu associata all’America perché capace di unire la ritualità del suo popolo con la preghiera al Dio dei cristiani

Neanche a farlo apposta, nel dicembre successivo fu autorizzata la promulgazione del decreto sul miracolo per la sua canonizzazione. Tempestivamente lo segnalai commentando il post a lei dedicato, che già avevo letto e apprezzato.

Non l’ho più dimenticata, ma non pensavo di dedicarle un post, appunto perché sentivo di avere con lei, rispetto che con altri, legami molto esili. Il viaggio apostolico di papa Francesco in Canada, però, mi ha fatto drizzare le orecchie: probabilmente avrebbe parlato di lei, non solo come frutto dell’evangelizzazione compiuta dai confratelli gesuiti, ma anche come testimone di quell’ecologia integrale, ossia un rapporto profondo tra Dio, gli uomini e il creato, evidenziata come un bisogno dei nostri tempi nella Lettera enciclica Laudato si’. Il 25 luglio ha benedetto una sua statua nella chiesa del Sacro Cuore a Edmonton, mentre oggi l'ha citata nell'incontro con una delegazione d'indigeni nell'Arcivescovado di Québec. 

Spero proprio per lei una conoscenza ancora più ampia, quasi com’è successo a santa Laura Montoya: dopo la telenovela su di lei, trasmessa anche a livello nazionale, è finalmente uscita la sua prima biografia in lingua italiana, anche sulla scia del Sinodo sull’Amazzonia.

Ho quindi riletto il suo profilo e ho consultato altre fonti online, specialmente di siti statunitensi e canadesi. Il dato che già mi aveva colpito ai tempi era la sua determinazione a non sposarsi, dopo aver ascoltato la predicazione dei “vesti nere”, come i nativi chiamavano i missionari gesuiti.

Non mi sembrava allora tanto dissimile dalle vergini dei primi secoli del cristianesimo, ma neanche da santa Caterina da Siena, della quale, forse non a caso, le fu dato il nome. Oggi penso anche che possa essere considerata un’antesignana dell’Ordo Virginum: in effetti, il sito dell’Associazione Statunitense delle Vergini Consacrate la presenta così.

Ritengo poi che le traversie a cui venne sottoposta, anzi, la persecuzione palese da parte degli zii e di altri del suo villaggio, non sfigurerebbero in un film o in una fiction, ammesso però che non aggiungano un Inutile Filarino Amoroso (come chiamo io le inserzioni nella trama di personaggi inventati pur di far eccellere ancora di più le virtù del o della protagonista) nella persona di qualche baldo guerriero Mohawk.

Non sono invece da prendere a modello le sue mortificazioni corporali: Lucia, nel post del suo blog, immagina che lei si scarnificasse per versare qualche goccia del suo sangue, come d’uso nel suo popolo per manifestare il proprio grande affetto per qualcuno; alla nostra Santa sembrava comunque molto inferiore rispetto al sangue che Gesù aveva versato per la redenzione dell’umanità.

Queste e altre penitenze possono però essere interpretate come tentativo di ricambiare un amore davvero esorbitante, del quale lei si sentiva oggetto e che non avrebbe mai scoperto, se i “vesti nere” non fossero stati ammessi nella casa dello zio capovillaggio.

 

Il suo Vangelo

 

Il messaggio universale della vita di santa Kateri ha, come accennavo sopra, due filoni. Quello di più stretta attualità è relativo al suo rapporto con la natura, vista sia come luogo di preghiera al pari della cappella della missione, sia come sorgente di risorse che gli uomini devono cercare di non sfruttare all’eccesso.

Grazie all’annuncio dei missionari, lei ha potuto integrare le conoscenze che le erano state tramandate - papa Francesco, nel discorso di oggi, l'ha messo bene in evidenza -  con il messaggio di Gesù, il quale, nelle parabole e nella predicazione, ha fatto molto uso di immagini tratte dal mondo animale e vegetale.

Riconoscendo l’amore di Dio nelle parole dei “vesti nere” e in quanto la circondava, ha quindi compiuto ben più di un’azione controcorrente rispetto alla mentalità dei Mohawk: la scelta di non sposarsi, ma anche quella di non lavorare nei giorni di festa, a costo di passare per sfaccendata. Nei giorni feriali, invece, lavorava eccome: nonostante la vista scarsa, era bravissima a infilare perline, a intrecciare canestri e a preparare i caratteristici wampum. Giustamente, quindi, padre Jacques de Lamberville la definiva “un tesoro” nella lettera con cui la presentava ai confratelli della missione di San Francesco Saverio.

Non sono stati tramandati suoi scritti, ma alcune affermazioni e interrogativi, come quello con cui spesso interpellava i missionari: voleva compiere sempre ciò che era più gradito a Dio. Lo fece fino alla morte, con quelle parole riferite sin dalle sue prime biografie (sebbene altri testi affermino che avesse pronunciato anche il nome di Maria):

Gesù, ti amo.

Parole che, unite ai fatti della sua vita e alle grazie ottenute per sua intercessione, l’hanno resa un modello autentico al di là del suo popolo e dei nativi americani in genere.

 

Per saperne di più

 

Paolo Tanzella SCJ, Caterina la cristiana – Tega-kuita, Edizioni Dehoniane 1976, pp. 267.

L’unica biografia disponibile in italiano, anche se non in libreria (qui il testo in formato .html, qui la cartella compressa col file .doc); i fatti narrati corrispondono tendenzialmente al vero, ma altri dati sono inventati di sana pianta per stessa ammissione dell’autore (il quale nella prefazione usa la traslitterazione Tekakwitha, ma nell’esposizione l’altra, perché la ritiene più facile da pronunciare).


Su Internet

 

Sito del Santuario Nazionale a lei dedicato a Caughnawaga o Kahnawake nel Québec

Sito del santuario a lei dedicato a Fonda, nello Stato di New York, ossia il luogo dove visse fino al trasferimento nella missione

Sito del Saint Kateri Tekakwitha Conservation Center di Wading River, New York

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