Abbiamo ancora bisogno dei Santi?



In un blog come questo, un post per la solennità di Tutti i Santi non può mancare. Lo scorso anno ne avevo fatto uno secondo i canoni che mi sono imposta, cioè rispondere alle tre domande Chi è?, Cosa c’entra con me?, Il suo Vangelo. Stavolta intendo presentare una riflessione che mi è sorta in un modo che forse non tutti approverete, in quanto legata a una palese presa in giro dei personaggi con l’aureola e del modo con cui certa televisione li rappresenta. Mi spiego meglio con quest’immagine (fonte):


Sì, avete visto bene: si tratta dell’ormai famosissimo Padre Maronno – L’uomo a cui appiopparono la santità, ideato da Marcello Macchia, alias Maccio Capatonda, per mettere alla berlina certe miniserie che, specie nei tempi forti, popolano i palinsesti televisivi. Sulle prime, mi ero arrabbiata anch’io, come tanti credenti, ma, negli ultimi tempi, ho compreso che ci fosse qualcosa oltre la satira intentata dal comico che interpreta questo “santo” suo malgrado.
Spesso accade, infatti, di vedere film in cui la santità viene rappresentata come una cosa che piomba dall’alto sul malcapitato protagonista, in un tripudio di musiche ad effetto e folle osannanti (anche se non gridano «Redivimi!»). Non mancano neppure gli antagonisti, che, specie nelle fiction sui Papi, sono rappresentati da cardinali arcigni che mal sopportano le innovazioni proposte dal personaggio centrale. Per non parlare, poi, dei casi dove la vita del protagonista viene arricchita con inesistenti filarini amorosi.
In questo modo, vengono completamente vanificate le pur nobili intenzioni di coloro che cercano di riproporre sul piccolo schermo l’antica “Bibbia dei poveri” presente sui muri e sulle vetrate delle chiese. Infatti i telespettatori, specie quelli più semplici, finiscono con l’ammirare e basta l’eroe aureolato, senza chiedersi né come vivere oggi ciò che lui insegna, né prendersi la briga di andare nella più vicina libreria cattolica e chiedere una biografia divulgativa ma documentata su di lui.
La santità, insomma, non consiste nell’aspettarsi qualcosa dal cielo che renda capaci di compiere miracoli, ma nel vivere ciò che accade con uno stile che si avvicini il più possibile a quello di Gesù, il quale compiva prodigi, ma non è esclusivamente su questi che si basa la narrazione dei Vangeli.
 
Veduta di piazza San Pietro il 6 ottobre 2002, alla canonizzazione di san Josemaría Escrivà de Balaguer (fonte)

Un altro interrogativo che mi ha presa, a questo proposito, è quello sulla necessità di porre ufficialmente dei credenti come esempi universali, insomma, sulla canonizzazione in sé. Oggi capita sempre più spesso che la buona fama di qualcuno venga ripresa dai mezzi di comunicazione, rimbalzi sul web, sia oggetto di trasmissioni più o meno strappalacrime, con un contenuto credente o no. Per quelli che invece vengono nominati Beati, a volte, la venerazione va ben oltre i limiti nei quali dovrebbe essere confinato il loro culto.
Ha quindi senso che la Chiesa, con l’inevitabile dispendio di denaro che l’organizzazione dell’evento comporta, continui a dare l’aureola a chi se la merita? Io penso di sì, per confermare la bontà di storie più o meno conosciute, anche se santità e notorietà non sono identiche. L’ho provato sulla mia pelle quando, parlando con qualcuno ad esempio della mia santa patrona, mi sono sentita rispondere che il mio interlocutore ne ignorava l’esistenza.
Nemmeno io conosco tutti i santi del calendario e ammetto che, quando ne vengono presentati di nuovi, non mi metto a cercare vita, morte e miracoli di tutti, a meno che non me ne venga commissionato il profilo biografico. Eppure, sono convintissima che ci sia ancora bisogno di ufficializzare l’esemplarità di tanti uomini, donne, bambini e ragazzi: i procedimenti, più o meno lunghi, che culminano nel migliore dei casi con la proclamazione da parte del Papa, sono una garanzia di prudenza e scrupolosità.
Certo, piacerebbe anche a me essere certa che i semplici testimoni defunti di cui ho scritto, insieme ad altri di cui mi sento in dovere di parlare, ora vedano Dio faccia a faccia. Sarei felicissima se, un giorno, potessi vedere i loro volti, riprodotti su degli arazzi, essere svelati in solenni riti nelle loro Diocesi d’appartenenza, se non comparire sulla facciata di San Pietro a Roma. Non penso che sia impossibile, ma se io per prima cominciassi a camminare come loro, pur nella mia condizione attuale, magari qualcuno mi domanderebbe perché lo faccio: allora scatterei a raccontare la storia che mi ha insegnato un certo comportamento e chissà…


Un’ultima parola circa un comportamento che si sta diffondendo ogni anno che passa, a ridosso della solennità dei Santi. Parrocchie, associazioni e movimenti si stanno impegnando a vario titolo per scacciare gli spiriti maligni cui viene associata la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre e riportare al centro i veri protagonisti della festa, che invece sono anime la cui bontà è per così dire certificata.
Sono iniziative lodevolissime, anche se mi sembrano dettate più da uno spirito di rivalsa che da un vero desiderio di far crescere nel popolo di Dio la stima per le figure sante. Per seminare, anche nella società di oggi, il bene compiuto da esse, non devono bastare veglie “anti dolcetto o scherzetto”, che corrono il rischio di produrre l’effetto del noto proverbio «Passata la festa, gabbato lo santo». Ci vuole, invece, un radicale cambiamento di mentalità: molti, anche tra gli stessi cattolici, affermano che le persone appassionate di agiografia, o che collezionano reliquie o immaginette, siano completamente fuori dal mondo.
Quanto a me, continuerò a scrivere e a raccogliere santini, pur restando convinta del fatto che una vita, più o meno lunga, e la fede che l’ha permeata, non possano venir ingabbiate nei parametri di un articolo o in un’immagine con preghiera sul retro. È la stessa cosa che avviene per la luce di una candela, che splende, ma non si può afferrare in alcun modo.

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