Santi da giovani #2: san Giovanni Bosco (seconda parte)

La prima puntata della nuova rubrica «Santi da giovani», dove immagino di far parlare Santi deceduti in età avanzata riguardo la loro giovinezza, è risultata più lunga del previsto. Ecco quindi la seconda parte (la prima la trovate qui), in cui faccio descrivere a san Giovanni Bosco gli anni del Seminario, fino all’incontro che lo fece decidere per i giovani più abbandonati.
Come dicevo nella prima parte, la versione originale di questo articolo è stata pubblicata su questa pagina, ma ho pensato di snellirlo, di dividerlo in due parti e, magari, d’inserire qualche immagine, per alleggerire la lettura. Dove non altrimenti specificato, le immagini sono tratte dalla Banca Dati delle immagini salesiane.

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Una nuova vita

Ecco quindi che, il 25 ottobre 1834, nella chiesa del mio paese, Castelnuovo d’Asti, ho indossato per la prima volta la veste nera da prete. Lasciando i miei abiti, ho pregato il Signore di distruggere le mie cattive abitudini e di aiutarmi a vivere davvero una vita nuova.
Lo stesso giorno, mi hanno portato alla festa patronale del paese vicino. Il chiasso dei festeggiamenti e il comportamento di alcuni sacerdoti mi lasciò impressionato, tanto che, nei quattro giorni successivi, mi sono dato a riflettere attentamente. Nei sette propositi che ho scritto allora, promettevo di abbandonare le mie abitudini di prima, come andare a vedere spettacoli pubblici o fare il saltimbanco. Da bambino, infatti, lo facevo spesso, ma prima di concludere invitavo il mio pubblico a pregare.
Il 30 ottobre sono entrato nel Seminario di Chieri, accompagnato, ancora una volta, dalle esortazioni di mamma Margherita. Mentre preparavo il mio baule, la sera precedente, mi aveva preso in disparte e ribadito: «Se un giorno avrai dubbi sulla tua vocazione, per carità, non disonorare quest’abito. Posalo subito. Preferisco avere per figlio un povero contadino piuttosto che un prete trascurato nei suoi doveri».

«Lasciando i miei abiti, ho pregato il Signore di distruggere le mie cattive abitudini
e di aiutarmi a vivere davvero una vita nuova»
Il tempo del Seminario

Le giornate in Seminario erano scandite dal suono della campana, che per noi doveva essere la voce di Dio che ci richiamava al dovere. Era molto difficile obbedirle quando dovevamo terminare la ricreazione. Spesso mi mettevo a giocare a carte, puntando del denaro: pur non essendo molto bravo, guadagnavo sempre, a spese, però, dei miei compagni. La tristezza che provavo nel vederli così abbattuti mi fece decidere di smettere, quand’ero al secondo anno di Filosofia. Dovevo concentrarmi sui libri, non sulle figure delle carte, che mi tornavano in mente perfino quando studiavo.
Il giovedì venivano a trovarmi i miei amici e compagni di scuola, quelli che avevo riunito nella «Società dell’Allegria». Insieme ci eravamo impegnati a non compiere azioni o pronunciare discorsi che facessero arrossire un cristiano, a fare i nostri doveri scolastici e religiosi e a essere allegri, perché sapevamo di essere nelle mani di Dio.
Intanto stavo iniziando a immaginare che tipo di prete avrei voluto essere. Se già da ragazzo ero certo che non avrei voluto essere uno di quelli che incutevano paura e autorità severa, negli anni di Seminario ho capito che non avrei mai fatto né il confessore delle ragazze, né il precettore in qualche famiglia nobile.

«Il giovedì venivano a trovarmi i miei amici e compagni di scuola,
quelli che avevo riunito nella
Società dell’Allegria»
La prima predica

Il 3 novembre 1837 ho iniziato gli studi di Teologia e già nel 1838, il giorno della Madonna del Rosario, sono stato invitato a tenere la mia prima predica nel paese di Alfiano. Dopo la celebrazione, ho chiesto a don Giuseppe Pelato, il parroco, come fossi andato. Il suo giudizio fu positivo, ma solo in parte: avevo espresso contenuti che a me parevano semplici, ma erano complicati per il popolo, con uno stile ordinato.
Da allora mi sono impegnato a seguire quel che lui aggiunse: «Bisogna lasciare lo stile dei classici, parlare in dialetto, o anche in lingua italiana se volete, ma in maniera popolare, popolare, popolare. Invece di fare ragionamenti, raccontare esempi, fare paragoni semplici e pratici. Ricordatevi che la gente segue poco, e che le verità della fede bisogna spiegarle nella maniera più facile possibile».

«Avevo espresso contenuti che a me parevano semplici, ma erano complicati per il popolo»
Un prete non va in cielo da solo

L’ordinazione sacerdotale, intanto, si avvicinava. Scrivevo nel mio quaderno di appunti, durante gli Esercizi spirituali in preparazione: «Il prete non va da solo al cielo, non va da solo all’inferno. Se fa bene, andrà al cielo con le anime da lui salvate con il suo buon esempio; se fa male, se dà scandalo, andrà alla perdizione con le anime dannate per suo scandalo».
Per questa ragione, ho rinnovato i propositi della vestizione e ho aggiunto altri tre punti: «Occupare rigorosamente il tempo; patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre quando si tratta di salvare le anime; la carità e la dolcezza di san Francesco di Sales mi guideranno in ogni cosa». Sentivo particolarmente vicino quel santo perché, come me, aveva moderato il suo carattere, facendo confluire l’ardore che sentiva nella predicazione e nella scrittura.
Così, il 5 giugno 1841, sono stato ordinato sacerdote. Il giorno del Corpus Domini, il giovedì seguente, ho celebrato la prima Messa al mio paese, ma non era la prima in assoluto. Anche allora, mia madre non mancò di far sentire il suo consiglio: «Ora sei prete, sei più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir Messa vuol dire cominciare a soffrire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ha detto la verità».

«Ora sei prete, sei più vicino a Gesù»
Ecco il mio campo!

Ho rifiutato tutte le sistemazioni che mi venivano offerte, fedele agli insegnamenti di mia madre e di don Cafasso. Sotto la sua guida, ho approfondito la formazione al Convitto Ecclesiastico di Torino, ma ho anche fatto la scoperta di quello che avrebbe dovuto essere il mio campo di lavoro.
Fino ad allora avevo vissuto in campagna: non sapevo nulla di come i ragazzi e i giovani nei quartieri periferici di Torino trascorressero le loro giornate. Ho visitato le soffitte dove si rifugiavano gli operai al termine della giornata, ho incontrato ragazzi giovanissimi finiti in carcere e ho ascoltato la loro rabbia. È stato così che ho deciso: avrei speso la mia vita per salvarli, per evitare che altri avessero la loro sorte e per essere loro amico.
Il primo amico che ho incontrato era Bartolomeo Garelli, l’8 dicembre 1841. Era un muratore, di sedici anni, orfano di entrambi i genitori. L’ho trovato in sacrestia, mentre stavo indossando i paramenti per la Messa solenne. Nonostante i rimproveri del sacrestano, gli ho detto di restare per la celebrazione e, dopo, abbiamo parlato di Dio e di come lui sia nostro Padre. Per concludere, l’ho invitato a tornare la domenica dopo, con alcuni amici: lo fece.

«Il primo amico che ho incontrato era Bartolomeo Garelli» (fonte)
Il resto è storia…

Avevo appena ventisei anni ed ero prete da sei mesi. Non lo sapevo ancora, ma la mia storia stava per avere una nuova pagina. Non solo la mia, ma quella di tanti altri giovani che sarebbero passati per l’oratorio che avevo in mente.
Da centotrent’anni guardo il mondo mentre sono immerso in Dio e sono sicuro che non va poi così male. Basta che ci siano uomini e donne, bambini e ragazzi, capaci di avere un po’ più di fiducia in Lui e in Maria Ausiliatrice: così sarà possibile compiere autentici miracoli.

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