Santi da giovani #3: santa Rita da Cascia

Prosegue la mia indagine, tra storia e fantasia, su come dovevano essere da giovani i Santi più famosi, specie quelli che sono morti in età avanzata. Oggi è il turno di santa Rita da Cascia, nel giorno della sua memoria liturgica.
Nel corso della sua esistenza, durata una settantina d’anni, fu, per circa diciotto, sposa di Paolo Mancini di Ferdinando. Proprio questa parte della sua vicenda voglio raccontare, immaginando, come già per san Giovanni Bosco (prima e seconda parte), che sia lei stessa a farlo.

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Se qualcuno mi domandasse come fu la mia giovinezza, risponderei che è stata una tappa necessaria per il mio percorso. Avevo sogni e aspirazioni, che ho accettato di sacrificare perché sentivo che Dio voleva così. Il mio sogno più grande, però, era quello di consacrarmi a Lui, magari come le monache agostiniane che abitavano il monastero di Santa Maria Maddalena, nella mia città di Cascia.
 
Sposa per ubbidire ai genitori e a Dio

«I miei genitori [...] mi avevano promessa a lui quando avevo quattordici anni» (fonte)
Tuttavia, alla fine, ho celebrato le mie nozze con Paolo. I miei genitori, Antonio Lotti e Amata Ferri, mi avevano promessa a lui quando avevo quattordici anni. Questo potrà stupirvi, ma all’epoca in cui sono vissuta capitava molto spesso. Guardando l’anello che avevo scambiato con lui – si usava già farlo, durante il rito delle nozze – mi sono soffermata sulla sua forma: due mani intrecciate. Pensavo a quante volte ho visto delle mani stringersi, di persone che prima si consideravano nemiche.
I miei genitori avevano fatto della riconciliazione una missione: erano infatti pacieri comunali. Pensavo anche a come loro stessi costituissero un esempio per me, per questo. Inoltre, mi avevano avuta quando erano molto in là con gli anni e mi consideravano un tesoro da custodire, degno di essere affidato solo a qualcuno che se lo meritasse. Per questa ragione mi promisero a Paolo: era abbastanza ricco, possedeva un mulino e aveva varie attività di commercio con le città vicine.

Fedele sempre

«A me importava solo una cosa: lui era mio marito e basta»
Rita e Paolo in una icona di Marianne Henry (fonte)
Qualcuno, raccontando di me, ha affermato che Paolo fosse eccessivamente violento. Forse intendeva far risaltare la mia reazione, in modo da presentarmi come una sposa che non avanzasse pretese. Qualcun altro ha minimizzato, affermando che all’epoca era normale che gli uomini si dedicassero a cavalcate impetuose, a tirare di spada, a ricorrere al vino per dimenticare situazioni di conflitto come quelle delle nostre città umbre.
A me importava solo una cosa: lui era mio marito e basta. Avevo promesso di essergli fedele sempre, come Dio è fedele con noi uomini anche quando sbagliamo. Col tempo, anche Paolo avrebbe imparato a smussare gli aspetti più aspri del suo temperamento, che pure c’erano, ve lo assicuro. In effetti, così è stato: in molti, a Cascia, si stupirono al vederlo comparire al mio fianco in chiesa durante la Messa.

Vita coi figli

«Dovevo pensare al bene della loro anima»
Giuseppe Ugonia, «La preghiera coi figli», Museo Civico "G. Ugonia", Brisighella (fonte)
Abbiamo avuto due magnifici figli, Giangiacomo e Paolo Maria. Mi sono domandata allora come fare per essere una buona madre per loro. Avevo davanti l’esempio di colei che mi aveva messa al mondo, ma soprattutto quello della Madre di Dio, la Vergine Maria. Sentivo anch’io, come lei, di aver avuto un grande dono, e compresi che dovevo provvedere in tutto ai miei figli. Dovevo allevarli, nutrirli, non far mancare mai loro del necessario.
Ancora prima, dovevo pensare al bene della loro anima: parlavo loro di Dio e raccontavo le leggende dei santi, tanto famosi nella nostra valle. Assistevo ai loro giochi, anche se mi preoccupava un po’ vederli lottare con armi finte, quasi si stessero allenando per essere, una volta cresciuti, parte dell’esercito cittadino.

Il dolore più grande

«I ragazzi giunsero sul luogo poco dopo di me. Li abbracciai forte...»
Giuseppe Ugonia, «Santa Rita davanti al cadavere del marito», Museo Civico "G. Ugonia", Brisighella (fonte)
Una sera, però, Paolo non tornò dal suo mulino. Preoccupata, corsi a cercarlo, senza curarmi della pioggia battente. Lo trovai non molto lontano, ferito a morte da colpi di spada. Mentre le mie lacrime si mescolavano con le gocce che cadevano dal cielo, un pensiero mi colse subito: e i nostri figli? Se avessero visto quello spettacolo, di certo avrebbero pensato a vendicarsi. Così facendo, avrebbero a loro volta ucciso qualcuno, gettato qualcun altro nel dolore che in quel momento era il mio, costretto altri a vendicarsi. Una spirale d’odio, che mai avrebbe avuto fine. Così decisi che avrei nascosto la camicia insanguinata di Paolo. I ragazzi giunsero sul luogo poco dopo di me. Li abbracciai forte, mentre stringevo ancora la mano, gelida di morte e di pioggia, dell’uomo che avevo amato.
Se anche non si fossero vendicati, erano comunque in pericolo. Potevano non solo rischiare di venire subito assassinati a loro volta, ma anche, se avessero in qualche altro modo aggredito gli uccisori del padre, essere banditi dal territorio di Cascia. Non avrebbero più avuto nessuno che li ospitasse e chiunque li avrebbe incontrati sarebbe stato autorizzato a ucciderli. Era un’idea terribile, che continuava a passarmi nella mente. A quel punto, fu il mio cuore a gridare a Dio per me. Volevo troppo bene ai miei ragazzi per pensare che non avrebbero potuto avere una vita eterna felice. Di lì a poco morirono, ma per malattia.

Dio era sempre con me

«Non smisi di esserlo neanche quando le monache di Santa Maria Maddalena mi preclusero l’ingresso da loro»
Giuseppe Ugonia, «Santa Rita davanti al cadavere del marito», Museo Civico "G. Ugonia", Brisighella (fonte)
Ero rimasta sola: neanche i parenti di Paolo sembravano comprendermi, loro che avevano provato a istigare Giangiacomo e Paolo Maria alla vendetta. Tuttavia, sentivo di non essere completamente abbandonata: Dio era con me, ne ero sicura. Non smisi di esserlo neanche quando le monache di Santa Maria Maddalena mi preclusero l’ingresso da loro.
Immaginate le loro espressioni quando, una sera, mi ritrovarono nel coro del monastero, a porte chiuse. Era un fatto impossibile, che per me era un ulteriore segno del volere di Dio. Lui aveva permesso che fossi sposa di Paolo perché quello era il disegno stabilito per me in quel momento. Sempre Lui aveva disposto che quella fosse la mia nuova dimora: le altre monache dovettero solo obbedire di fronte all’evidenza.

Un segno, anche per i devoti di oggi

«Mi hanno raccontato che a Santa Cruz, in Brasile, è stata costruita una mia statua, alta cinquantasei metri» (fonte)
Nelle mie lunghe preghiere, aggrappata alla roccia dello Scoglio di Roccaporena, mi ero affidata in particolare a tre santi: Giovanni Battista, nella cui chiesa ero stata battezzata; Agostino d’Ippona, modello e guida per i frati e le monache della mia città; Nicola da Tolentino, che all’epoca era ancora Beato e che ammiravo per le penitenze cui si sottoponeva, ma delle quali non lasciava trasparire nulla all’esterno. Adesso, invece, accade anche a me di mediare tra Dio e le infinite necessità degli uomini.
Mi hanno raccontato che a Santa Cruz, in Brasile, è stata costruita una mia statua, alta cinquantasei metri. Dicono che sia la più grande statua cattolica del mondo, che supera perfino un’immagine di Gesù che si trova sempre in Brasile, a Rio de Janeiro. Allo stesso modo, non vorrei che quanti ricorrono a me mi ritenessero più importante del Signore: io sono solo un mezzo attraverso cui arrivare a conoscerlo e ad amarlo.
È stato così per mio marito e i miei figli, quindi vale anche per i devoti di oggi. In questo modo, potranno capire che l’impossibile accade solo se ci si fida pienamente di Dio: gli avversari si rappacificano, la vendetta è spenta, i rami secchi possono diventare vite rigogliosa e, anche nell’inverno più gelido, possono spuntare fiori e frutti di riconciliazione.

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