Il prete dal sorriso di fanciullo – Il Venerabile don Giuseppe Quadrio (Cammini di santità #25)
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Conoscevo
solo di nome il personaggio di cui ho trattato nel numero di questo mese di Sacro
Cuore VIVERE. Avevo presenti le linee principali della sua biografia, ma
non mi aveva mai attratta molto, forse perché mi ero lasciata prendere dall’errata
convinzione per cui i teologi sono persone severe.
Quando
il direttore mi ha commissionato l’articolo, mi è venuto da domandarmi se la
severità del compito di don Giuseppe fosse stata stemperata dal suo essere
sacerdote salesiano. La risposta, insieme al pentimento per il mio pregiudizio,
è venuta leggendo i suoi scritti, particolarmente il suo Diario. Non solo: in
lui ho trovato la mia stessa aspirazione alla santità e il desiderio di farsi
aiutare da fratelli nella fede che sono già in Cielo.
Mi
sono sentita ispirata a tal punto che ho deciso di riprendere i suoi Cinque consigli a un Sacerdote Novello, sperando che i preti diocesani appena ordinati
delle mie parti potessero farli propri. Intanto, però, mi hanno fruttato una
nuova menzione su Avvenire, nella rubrica WikiChiesa.
Avevo
pensato d’intitolare l’articolo Il teologo del sorriso, ma il direttore
ha preferito quello che ho tenuto, che è lo stesso di una sua biografia. Mi
viene da dedicarlo idealmente ai preti-studenti che conosco e ai giovani professori
del mio Seminario, due dei quali sono in maniera specialissima nelle mie
preghiere da poco prima della loro ordinazione.
* * *
È
il 12 dicembre 1946. In un’aula della Pontificia Università Gregoriana di Roma
si sta svolgendo un’accesa disputa teologica. L’argomento è la definibilità
teologica del dogma dell’Assunzione della Vergine Maria in cielo. Sono
presenti, tra gli altri, nove cardinali, teologi esperti come il domenicano
padre Réginald Garrigou-Lagrange e monsignor Giovanni Battista Montini, il
futuro papa Paolo VI.
Gli
occhi di tutti sono puntati su un giovane studente, non ancora sacerdote. A lui
è stato affidato il compito di difendere la ragionevolezza dell’Assunzione,
soprattutto per quanto riguarda l’aspetto corporeo. Si chiama Giuseppe Quadrio
e da pochi anni ha professato i voti tra i Salesiani di Don Bosco. Interviene
con serietà e compostezza, sorprendendo i presenti. Aspetta che le obiezioni
terminino, prima di controbattere a sua volta. Il successo è notevole: i
protagonisti della disputa si congratulano con lui.
Due
giorni dopo, l’«Osservatore Romano», il quotidiano della Santa Sede, riporta un
articolo sulla disputa. Quanto a Giuseppe, nel suo diario spirituale commenta:
«La Madonna ci ha messo le mani e si è fatta veramente onore. Sono contento di
aver potuto onorare col mio modesto contributo il figlio, la madre, don Bosco e
la congregazione».
Un
“ravvedimento” nell’infanzia
La
strada che ha portato Giuseppe alla Gregoriana comincia a Ca’ Torchio, frazione
del comune di Vervio, in Valtellina, il 28 novembre 1921. Fa parte di una famiglia
numerosa e dà il suo contributo all’andamento familiare portando le capre al
pascolo. Comincia a sentire sin da piccolo un «pensiero confuso», come lo
definirà più tardi: diventare sacerdote. Dopo qualche tempo, influenzato anche
da alcuni compagni di gioco, quasi non ci pensa più.
Un
giorno, però, nella solennità di Tutti i Santi, sente spiegare una frase di
sant’Agostino: anche lui può diventare santo, anche se non sa ancora come.
L’idea si fa più concreta nella seconda domenica del febbraio seguente: mentre
gioca come al solito, ma continua a perdere, gli affiora sulle labbra una
bestemmia. Smette subito di giocare e, qualche giorno dopo, va a confessarsi.
“Bepìn”,
come lo chiamano tutti, prova quindi a stendere un primitivo regolamento di
vita, con pochi punti fissi. Mette nero su bianco la decisione di farsi prete,
su un foglietto che nasconde dietro lo specchio di casa. Solo quando suo
fratello, giocando, lo fa cadere, rende palese ai genitori quel suo proposito,
sempre più serio.
Mentre
è al pascolo, Giuseppe legge spesso il «Bollettino Salesiano», oppure ha tra le
mani una biografia di san Giovanni Bosco. Decide quindi per i Salesiani: il suo
parroco l’indirizza all’Istituto Missionario Salesiano di Ivrea, dove arriva
nel 1933, dato che un altro suo sogno è quello di partire missionario.
Docile
all’azione dello Spirito per farsi santo
Quell’aspirazione
s’infrange presto contro il volere dei superiori: è ancora troppo giovane per
cominciare il noviziato e, in più, manifesta un’attitudine speciale per lo
studio. Giuseppe assapora quindi le prime delusioni nella vita, che lo portano
a una domanda ricorrente nei suoi scritti personali: «Chi sono io?». La
risposta che si dà è: «L’ultimo, il peggiore di tutti», per i peccati di cui si
sente colpevole.
Se
lui è un nulla, Dio però è tutto e sa come elevarlo alla santità cui aspira.
Per riuscirci, Giuseppe conta sulla protezione di Maria Ausiliatrice, la sua
“mamma” tanto amata. Gesù è per lui un “fratello”, che lo corregge e lo rimette
sul- la strada giusta anche tramite qualche umiliazione. Ha poi tanti
“fratellini” tra i Santi: Gabriele dell’Addolorata, Teresa di Lisieux, ma anche
Elisabetta della Trinità, che non menziona per nome, ma dalla quale impara come
essere lode della gloria di Dio, secondo quanto insegna san Paolo. Per crescere
ancora di più come salesiano, si rifà agli esempi di san Domenico Savio, di don
Andrea Beltrami (attualmente Venerabile) e di don Michele Rua, il primo
successore di don Bosco (oggi Beato). Intanto, il 30 novembre 1937, professa i
primi voti.
L’anno
successivo viene mandato a Roma, per gli studi di filosofia e di teologia.
Risiede nella comunità salesiana del Sacro Cuore, dove accorrono molti
ragazzini del popolo, gli “sciuscià”, per frequentare l’oratorio. Giuseppe riesce
a trovare tempo per stare con loro e, all’occorrenza, fa anche da barbiere.
Col
tempo, mentre studia e fa tirocinio pratico, riesce a trovare la risposta alla
domanda sulla vera natura del proprio essere. Il 28 maggio 1944 vive quella che
chiama «la mia Pentecoste», un’esperienza che non descrive nei dettagli, ma
dalla quale decide di assumere un nuovo nome, con cui firmerà da allora i suoi
scritti spirituali: «Docibilis a Spiritu Sancto», traducibile come «Colui che
si lascia ammaestrare dallo Spirito Santo».
Don
Giuseppe professore
Dal
16 marzo 1947, Giuseppe è sacerdote. Due anni dopo si laurea a pieni voti,
discutendo la tesi su «Il Trattato sull’Assunzione della Beata Vergine Maria
dello Pseudo-Agostino e il suo influsso nella teologia assunzionista latina».
Dentro di sé, però, è consapevole di quanto aveva scritto il 2 novembre 1943:
«Convinci, o Signore, la mia superbia, che non sarà con una laurea in più, ma
con l’unzione della tua grazia, che domani – sacerdote – glorificherò il Padre
e salverò le anime».
Aveva
già cominciato a insegnare a Foglizzo, ma dallo stesso anno della laurea è inserito
tra i docenti del Pontificio Ateneo Salesiano di Torino-Crocetta. La sua
materia è la teologia dogmatica, che spiega con competenza e chiarezza, usando
schemi comprensibili. Fa del suo meglio per non deludere gli allievi, che del
resto hanno una notevole stima di lui. Il suo sorriso li conquista ancor più
delle esposizioni, ma quando sale in cattedra li entusiasma in modo
particolare. Con lui, anche una materia ardua come la teologia sembra prendere
fuoco, cioè ricevere ardore e calore.
Mentre
gli elogi verso di lui sono pressoché unanimi, don Giuseppe non è ancora
interiormente pacificato. Per il grande amore che prova verso il Signore,
soffre per ogni minima mancanza, specie quelle che commette contro la carità
fraterna. Eppure, chi lo vede resta sempre colpito dal suo volto sereno e dal
sorriso amabile, che ogni tanto esplode in qualche risata di cuore.
A
letto come in cattedra
Nel
1960, a don Giuseppe viene diagnosticato un linfogranuloma maligno. Rinuncia
all’incarico di decano della facoltà di teologia della Crocetta e viene
ricoverato, il 2 gennaio 1962, alla Nuova Astanteria Martini di Torino. Solo in
quel periodo il suo abituale sorriso appare leggermente velato dalle
preoccupazioni, turbato dalle cure che non hanno esito.
Qualcuno
chiede per lui la guarigione invocando don Rua. La grazia sperata non arriva,
ma sente di aver ricevuto ugualmente, per sua intercessione, «una pace
immeritata e soavissima, che rende questi giorni di attesa prolungata i più
belli e più felici della mia vita». Don Giuseppe muore il 23 ottobre 1963,
verso sera.
Il
decreto con cui papa Benedetto XVI lo ha dichiarato Venerabile porta la data
del 19 novembre 2009. Dall’8 novembre 2012, don Giuseppe riposa nella chiesa
pubblica dell’Istituto Internazionale Don Bosco a Torino, intitolata a Maria
Ausiliatrice. Da lì sembra ancora di sentire i consigli che donava ai suoi
allievi, validi in verità per tutti: «Lo Spirito Santo non ha bisogno né di
geni, né di dotti, né di oratori, né di professori; ha bisogno di santi: uomini
che lo lascino fare, che siano a sua completa disposizione, che gli concedano
tutto ciò che chiede; a cominciare dalle cose più piccole, più ordinarie, più
modeste».
Originariamente
pubblicato su «Sacro Cuore VIVERE» 5 (settembre 2019), pp. 16-17 (visualizzabile
qui)
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