Un uomo di frontiera per l’Europa – Il Servo di Dio Robert Schuman (Cammini di santità #33)

Illustrazione di Francis Nathan Abiamb (in arte Afran),
realizzata per il calendario 2021 dell’Opera Salesiana del Sacro Cuore
e usata per la versione a stampa di questo articolo


All’inizio della programmazione del mio sesto anno di collaborazione con la rivista Sacro Cuore VIVERE, dell’Opera Salesiana del Sacro Cuore di Bologna, il direttore mi ha proposto di dedicare l’articolo di marzo al Servo di Dio Robert Schuman, perché l’aveva collocato proprio in quel mese, nel calendario 2021 che sostituiva il numero di dicembre. Sono stata decisamente d’accordo, perché il post che avevo pubblicato un annetto fa, nel sessantesimo anniversario della cosiddetta Dichiarazione Schuman, mi sembrava scritto troppo di fretta.

Rispetto ad allora, però, sentivo di dover contattare il professor Edoardo Zin, vicepresidente dell’Istituto San Benedetto, ente che si è reso attore della sua causa. Ci sono riuscita grazie a una rete di conoscenze reciproche, ulteriore riprova che i legami nella Comunione dei Santi sono qualcosa di ben più profondo dei famosi sei gradi di separazione (e a volte toccano meno di sei passaggi).

Ho quindi letto il libro che già avevo, ma anche alcuni articoli di Zin stesso, usciti sul Portale della diocesi di Milano e su La Provincia di Varese, per cercare di offrire un ritratto il più possibile originale. Consultando poi l’Agenzia SIR, ho appurato che la Positio super virtutibus di Schuman era in fase di stesura nel 2018, ma purtroppo me ne sono accorta quando il pezzo era ormai in fase di stampa.

È stata un’operazione simile a quella che mi aveva condotta ad approfondire il Venerabile Giorgio La Pira: anche nel suo caso il mio articolo su di lui era uscito a marzo e anche di lui sapevo a grandi linee qualcosa sull’operato politico. Ora sento di essere d’accordo con quanti sperano che l’Europa tanto segnata dall’emergenza sanitaria possa essere guidata da politici animati non solo da tecnica e competenza, ma anche da una visione di speranza.

 

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Sono le 18 del 9 maggio 1950. I giornalisti sono stati convocati presso la sede del Ministero degli Esteri a Parigi, per ascoltare un’importante dichiarazione. Appena il Ministro degli Esteri, Robert Schuman, fa il suo ingresso nella Sala dell’Orologio, si rende conto che gli occhi di tutti sono puntati su di lui. Abbozza un timido sorriso, poi inizia a leggere: «La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Quasi come un fiume in piena, presenta la sua proposta: «L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto».

Mentre esce dalla sala, forte dell’adesione da parte dei colleghi, Schuman avvicina un suo stretto collaboratore e gli sussurra all’orecchio, riferendosi all’Europa: «E ora bisogna darle un’anima». È quanto ha cercato di fare in tutta la sua azione politica.

 

Un apostolo laico nel mondo

 

Jean-Baptiste Nicolas Robert Schuman nasce a Clausen, quartiere di Lussemburgo, il 29 giugno 1886. Già in famiglia inizia a percepire come sia possibile ricomporre i contrasti tra popoli anticamente nemici: suo padre è lorenese, mentre sua madre è lussemburghese; entrambi si sentono francesi per cultura e tedeschi per nazionalità.

La sua formazione scolastica, negli studi superiori, è itinerante, ma alla fine si ferma a Strasburgo dove, nel 1910, discute la tesi. Apre quindi uno studio da avvocato a Metz, ma non si limita a cause e arringhe: aderisce all’Unione popolare cattolica lorenese e comincia a interessarsi ai problemi di bambini e ragazzi, abbandonati e a rischio di delinquere. Se ne accorge anche monsignor Willibrord Benzler, vescovo di Metz, che lo mette a capo della Direzione delle opere diocesane per la gioventù.

Nel suo modo di vivere la fede, per sua stessa ammissione, cerca di «conciliare lo spirituale e il profano». In questo è determinante l’influsso di sua madre: da lei ha imparato soprattutto a rivolgersi alla Madonna, specialmente con la preghiera del Rosario. Quando lei muore in un incidente, il 30 agosto 1911, il figlio avverte un grande vuoto. Gli sembra che solo una consacrazione radicale al Signore possa appagarlo, ma Henri Eschbach, il suo migliore amico, gli consiglia di rimanere nel mondo: secondo lui, c’è un grande bisogno di apostoli laici.

 

La fede anima la sua vita pubblica e privata

 

Non partecipa direttamente alla prima guerra mondiale, al termine della quale è designato tra i candidati alle elezioni legislative per il dipartimento della Mosella. Ancora una volta, agisce solo dopo aver seguito i consigli di un altro amico, il canonico Collin: comprende quanto la sua presenza sia necessaria per frenare le istanze dei politici anticlericali.

Inizia occupandosi dell’integrazione amministrativa dell’Alsazia e della Lorena, per preservarne l’identità. Assume anche il compito di difendere la libertà religiosa, messa in crisi da quanti, invece, avrebbero voluto impedire l’insegnamento della religione, protestante o cattolica a seconda delle zone, nelle scuole elementari. Allo stesso tempo, però, frena le tendenze autonomiste.

Nel pieno della seconda guerra mondiale diventa Sottosegretario di Stato per i rifugiati, ma decide di rassegnare le dimissioni quando il maresciallo Pétain, capo del Governo, lo riconferma d’ufficio. Torna con urgenza a Metz, ma viene arrestato dalla Gestapo: per sette mesi è in cella d’isolamento, finché non viene trasferito a Neustadt, in una residenza sorvegliata. Riesce però a preparare l’evasione, di nascosto dai carcerieri.

Tra i luoghi dove si rifugia ci sono anche alcuni monasteri. Proprio il contatto con la vita monastica lo conduce a una profonda riflessione: come san Benedetto era riuscito a far vivere insieme in armonia romani e barbari, educandoli al reciproco rispetto, anche i popoli europei del suo tempo hanno bisogno di associarsi per il bene comune.

Così, senz’alcun desiderio di potere o di carrierismo, accetta gli incarichi che gli vengono affidati alla fine della guerra: membro dell’Assemblea costituente, poi Ministro delle Finanze e, per otto mesi, capo del Governo.

Nella vita pubblica applica gli stessi principi che esercita in privato: ha un tenore di vita sobrio e parsimonioso, per cui, anche a livello statale, opera nel medesimo senso. È mite, ma sa farsi valere e ascolta i colleghi, dando spazio anche a quanti non la pensano come lui. Non di rado mostra un certo senso dell’umorismo, perfino durante i tempi della detenzione forzata. Comincia la sua giornata lavorativa meditando una pagina della Bibbia e partecipa alla Messa anche quando Parigi è in stato d’assedio.

 

Padre dell’Europa

 

Due anni dopo essere diventato Ministro degli Esteri, ascolta l’ipotesi proposta dall’economista Jean Monnet: che la produzione di carbone e acciaio sia diretta da un’autorità comune, anzitutto tra Francia e Germania, aprendo in pari tempo ad altri Stati. Schumann vede in questo progetto non solo il superamento di una rivalità quasi atavica, ma anche la prospettiva di un futuro di pace per l’Europa che si sta rialzando dalle ferite della guerra.

Il 9 maggio 1950 presenta quindi il Piano Schuman, come viene comunemente chiamato: è il primo atto verso l’integrazione europea. Nella sua dichiarazione espone quattro elementi fondamentali, con i relativi frutti: la pace, frutto del perdono; la solidarietà, frutto della giustizia; l’unità in una federazione, frutto della sovranazionalità; le realizzazioni comuni, frutto dell’unità. Schuman ha però un’avvertenza: le istituzioni europee «sarebbero un corpo senza anima se non fossero animate da uno spirito di fraternità fondato su una concezione cristiana di libertà e di dignità della persona umana».

Dopo il suo ultimo mandato come Ministro della Giustizia, decide di ritirarsi dalla politica attiva, ma nel 1958 viene eletto all’unanimità presidente dell’istituzione che anticipa l’attuale Parlamento europeo. Quando lascia la carica, gli viene conferito il titolo di “Padre dell’Europa”.

 

Un ultimo gesto di carità politica

 

Fra il 1958 e il 1960 Schuman visita gli Stati membri della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio): quasi dovunque è accolto con tutti gli onori, tranne che in Francia. A questa prova morale si aggiungono problemi di salute: nell’ottobre 1959, durante una visita ufficiale a Roma, è colto da ischemia cerebrale. Consapevole di essere prossimo a morire, raduna i suoi appunti personali per distruggerli, ma i suoi amici e collaboratori l’invitano a trasformarli in un libro, che viene pubblicato alla fine del settembre 1963, col titolo «Per l’Europa». Schuman però è già morto, il 4 dello stesso mese, nella sua casa di Scy-Chazelles.

Nel volume-testamento ribadisce come la democrazia, nel suo senso più profondo, non possa esistere senza il cristianesimo: «Ha insegnato l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini, figli di un medesimo Dio, riscattati dal medesimo Cristo, senza distinzione di razza, di colore, di classe e di professione. Ha riconosciuto il primato dei valori interiori che soli nobilitano l’uomo. La legge universale dell’amore e della carità ha fatto di ogni uomo il nostro prossimo e su di essa riposano, da allora, le relazioni sociali nel mondo cristiano».

L’inchiesta diocesana della sua causa di beatificazione e canonizzazione si è conclusa a Metz il 29 maggio 2004. Ora attendiamo un miracolo perchè la Chiesa possa dichiararlo Beato. Le sue spoglie riposano nella cappella fortificata di San Quintino a Scy-Chazelles, al centro del pavimento, circondate dalle bandiere degli Stati membri dell’Unione Europea.

 

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Originariamente pubblicato su «Sacro Cuore VIVERE» 2 (marzo 2021), pp. 18-19 (consultabile qui)

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