Un giudice secondo il Vangelo – Il Beato Rosario Livatino (Cammini di santità #34)
Immagine ufficiale dell'arazzo della beatificazione, opera di Maria Cardella (fonte: sito dell'Arcidiocesi di Agrigento) |
Non avevo neppure mai visto Il giudice ragazzino, il film che, come il libro da cui era stato tratto, aveva contribuito a far capire la rilevanza civile dell’impegno di Livatino. Tre anni fa, approfittando di un passaggio su TV 2000, gli ho dato una possibilità, se non altro perché, essendo stato prodotto ancor prima che si pensasse a un’eventuale causa di beatificazione e canonizzazione, non poteva avere i peggiori elementi in cui solitamente cadono opere di finzione su Beati e Santi. Apprezzai l’intensa interpretazione di Giulio Scarpati, il quale è rimasto legatissimo a quel suo primo ruolo importante, ma nulla di più.
Con l’approssimarsi dell’anniversario tondo della sua morte, ho letto molti articoli, ma non mi sarei mai immaginata che, tre mesi esatti dopo, papa Francesco avrebbe autorizzato la promulgazione del decreto relativo al riconoscimento del suo martirio.
Intanto, però, il direttore di Sacro Cuore VIVERE l’aveva inserito nella lista di personaggi dei quali mi suggeriva di parlare per quest’anno; di conseguenza, avevo preso un paio di libri, sperando che fossero quelli giusti per provare a capire la profondità della sua dirittura morale, ma anche per intuire il suo modo di professare la fede in cui era stato cresciuto.
Nell’imminenza della beatificazione sono usciti parecchi nuovi altri libri, alcuni dal taglio più biografico, altri di approfondimento dei temi a lui cari. Purtroppo non ho potuto usarli perché, al momento della scadenza di consegna del mio pezzo, non erano neppure andati in stampa.
L’incoraggiamento del direttore mi ha aiutata a trovare gli aspetti che potevano non solo incuriosire il lettore, ammesso che non sapesse nulla di un personaggio così noto, ma anche sentirlo più vicino. Credo di averli trovati e spero di aver raccontato al meglio quel che ho imparato da lui. In fin dei conti, la mia conoscenza dei soggetti di cui tratto non deve fermarsi all’occasione in cui ne scrivo, ma deve sostenermi nel corso della mia vita.
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Canicattì, 18 luglio 1978. È stata una giornata impegnativa per Rosario Livatino: è appena diventato Uditore giudiziario presso il Tribunale di Caltanissetta. Per non dimenticare quell’evento così importante, lo annota sulla sua agenda. Inizia a scrivere con una matita, ma dopo qualche parola la cambia con una penna rossa e scrive: «Ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura». Subito dopo riprende la matita e continua: «Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige». Di solito, il giovane usa l’inchiostro rosso per segnare qualcosa a cui tiene particolarmente. Sarà però un altro rosso, quello del sangue versato dai martiri, a sigillare la serietà con cui ha mantenuto quell’impegno.
Bambino e studente intelligente
Rosario nasce a Canicattì, in Sicilia, il 3 ottobre 1952. Figlio unico di Vincenzo e Rosalia Corbo, è molto legato alla sua famiglia. Tiene particolarmente al nonno paterno, da cui ha preso il nome e col quale gioca spesso a carte, nei momenti liberi dallo studio. Il nonno lo fa vincere apposta, ma viene rimproverato dalla nuora: è giusto, secondo lei, che il bambino impari che la vita è fatta anche di sconfitte.
Saro, come lo chiamano amici e parenti, s’impegna a fondo nella scuola, ottenendo risultati molto buoni, che porta avanti anche alle scuole medie. Frequenta la parrocchia di San Domenico a Canicattì per la Messa domenicale, ma riceve la Prima Comunione a Napoli, il 26 luglio 1964, nell’istituto dove risiede una zia del padre, suor Maria Lattuca, Figlia di Maria Ausiliatrice.
Anche alle superiori, frequentate al liceo classico Ugo Foscolo di Canicattì, è uno studente dall’ottimo profitto, che si riflette nel comportamento: aiuta volentieri i compagni e spesso, con le sue domande, mette quasi in crisi il suo professore di Filosofia, Giuseppe Peritore. Con lui e con l’insegnante di greco e latino, Ida Abate, non rompe i rapporti neanche dopo l’esame di maturità.
S’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, non tanto per tradizione familiare – il nonno paterno, Rosario, è laureato in giurisprudenza – ma perché sente forte il bisogno di giustizia presente, al di là dei limiti, nel popolo siciliano. Si laurea il 9 luglio 1975 a pieni voti: subito inizia a cercare lavoro tramite concorsi, senza ricorrere all’appoggio di nessuno.
Un giudice diverso dal solito
Entrato in magistratura dopo un breve periodo come vicedirettore all’Ufficio del Registro di Agrigento, compie una carriera rapida, fino a diventare Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento. Il suo impegno viene riconosciuto dal Consiglio Superiore della Magistratura, per il quale risulta che, nel periodo 1984-1988, Rosario è il magistrato più produttivo della Procura di Agrigento. Inoltre, è uno dei primi ad applicare la legge Rognoni-La Torre, che prevede il sequestro dei beni ai mafiosi come misura di contrasto alla criminalità organizzata. Chiede poi una particolare serietà nelle indagini riguardanti reati contro il patrimonio ambientale.
Al di là dei successi personali, s’inizia a capire che non è un magistrato qualunque. Ha un concetto quasi sacerdotale di ciò che compete a quelli come lui, secondo quanto emerge in due conferenze, di cui sono rimasti i testi dattiloscritti. In particolare, in quella intitolata «Il ruolo del giudice in una società che cambia», tenuta il 7 aprile 1984, afferma che il Giudice (lo scrive sempre con l’iniziale maiuscola) «oltre che “essere”, deve anche “apparire” indipendente, per significare che accanto a un problema di sostanza, certo preminente, ve n’è un altro, ineliminabile, di forma».
Un 16 agosto, nonostante la calura estiva, va personalmente a consegnare l’ordine di scarcerazione di un detenuto, perché non vuole che resti in cella un minuto di più. Ancora, aspetta che la donna delle pulizie finisca di lavare il pavimento del suo studio in Tribunale, prima di entrare, per non rovinare la sua fatica. Infine, davanti a un carabiniere che esulta davanti al cadavere di un mafioso, intima con tono compassionevole e autorevole: «Di fronte alla morte chi ha fede prega, chi non ce l’ha tace!».
Sotto lo sguardo protettivo di Dio
Quanto a lui, non esprime la propria fede in maniera plateale, ma piuttosto intima e quotidiana. Prima di entrare in Tribunale, si ferma sempre a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe, con lo sguardo rivolto al Tabernacolo. Neanche il parroco, che pure ammira il suo contegno, sa di avere di fronte un giudice.
Studia con attenzione il magistero dei Papi e i documenti dell’episcopato siciliano e italiano, ma si sofferma in particolare sui pronunciamenti del Concilio Vaticano II riguardanti l’impegno dei laici nel mondo. Su questi testi basa le sue conferenze, ma anche sulla Sacra Scrittura: sulla sua scrivania tiene un Vangelo, sui cui medita e di cui sottolinea molte espressioni.
Nelle sue agende, specie nella prima pagina, compare la sigla S. T. D.: è un antico segno con cui intende mettersi sub tutela Dei, ossia «sotto la protezione», o meglio, «sotto lo sguardo di Dio». Di questo sguardo protettivo sente di avere bisogno in un periodo particolare della sua vita: per due anni non si accosta alla Comunione, perché sente di aver perduto la sua sconfinata fiducia nell’ordine giudiziario, a causa dei comportamenti di alcuni suoi colleghi. Il 27 maggio 1986, dopo due anni, ritorna a ricevere l’Eucaristia e aggiunge, sulla sua agenda: «Che il Signore mi perdoni ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori».
Un mese prima ha tenuto un’altra conferenza, dal titolo «Fede e diritto», dove descrive la relazione tra Dio e il magistrato credente, pensando di certo alla propria esperienza: «Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio».
Martire della giustizia perché martire della fede
Nella zona di Agrigento, in quegli stessi anni, è in corso una guerra di mafia tra Cosa Nostra e i gruppi emergenti della “Stidda”. Nello stesso palazzo dove Rosario vive con i genitori abita anche Giuseppe Di Caro, capo provinciale di Cosa Nostra: non gli sfugge quanto la rettitudine del giudice sia inseparabile dalla fede che vive. Inizialmente pianifica di aggredirlo all’uscita della chiesa di San Giuseppe, ma poi cambia i suoi piani.
Rosario sa di essere esposto a un rischio, ma non vuole far soffrire né i suoi cari, né gli uomini della scorta, che rifiuta perché la ritiene inefficace. Ne risentono anche le sue storie d’amore, che in ogni caso indicano quanto lui desiderasse avere una famiglia propria. Rinuncia anche ad andare al cinema, uno dei suoi pochi svaghi.
Il 21 settembre 1990 è da solo, nella sua automobile, mentre viaggia sull’autostrada da Canicattì ad Agrigento. Un’altra auto tampona di lato la sua, mentre partono alcuni colpi di pistola. Rosario scappa, ma viene raggiunto da alcuni uomini armati, che lo feriscono all’addome. Rivolto a loro, domanda in tono mite: «Picciotti [ragazzi], che cosa vi ho fatto?». La risposta è un insulto, insieme ad altri due colpi in pieno viso.
La notizia della sua uccisione viene immediatamente diffusa in tutta Italia. Il 9 maggio 1993 il Papa san Giovanni Paolo II, in visita pastorale ad Agrigento, riceve i genitori del giudice e commenta che lui e gli altri uccisi dalla mafia sono «martiri della giustizia e indirettamente della fede». Lo stesso giorno pronuncia un forte appello alla conversione dei mafiosi.
Grazie al lavoro svolto nella fase diocesana e in quella romana della sua causa di beatificazione e canonizzazione, ora l’avverbio “indirettamente”, per Rosario, non ha più ragione d’esistere. Il 21 dicembre 2020 papa Francesco ha infatti autorizzato la promulgazione del decreto con cui la sua morte viene definita un vero martirio e che sancisce come l’odio contro la fede sia il movente ultimo. La sua beatificazione è stata fissata al 9 maggio 2021, nella cattedrale di Agrigento.
Originariamente pubblicato su «Sacro Cuore VIVERE» 3 (maggio 2021), pp. 18-19 (consultabile qui)
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Postilla
Riguardo all’affermazione di san Giovanni Paolo II, mi sono rifatta, come già indicavo qui, al sito del Centro Studi Livatino.
Antonio Maria Mira, giornalista di Avvenire e autore di uno dei recentissimi volumi sopra citati, nell’articolo con cui annunciava la data della beatificazione (qui e a pagina 21 del cartaceo del 15 aprile 2021) contestualizza ancora meglio l’accaduto: aggiunge che all’udienza privata era presente anche la professoressa Abate, ma non indica, riferendo le sue parole che riportano quelle del Papa, se lui alludesse o meno agli uccisi dalla mafia.
In un altro volume, curato dal postulatore che ha seguito la causa dalla fase romana, è chiarito invece che l’inchiesta diocesana era stata avviata per verificarne l’eroicità delle virtù. Solo nel 2019, grazie a un’inchiesta suppletiva, è stato possibile raccogliere testimonianze che comprovassero il martirio in odio alla fede, così da presentare, nel 2020, la Positio super martyrio.
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