Prendersi cura dei più poveri – Intervista immaginaria (ma non troppo) a sant’Artemide Zatti

Ritratto di sant’Artemide Zatti
(al tempo Beato)
realizzato da Nino Musio nel 2001
(fonte)

La rubrica Testimoni della fede della rivista Sacro Cuore VIVERE, dell’Opera Salesiana del Sacro Cuore di Bologna, di solito è occupata da un’intervista a dei Testimoni di oggi, cioè viventi, realizzata dal direttore don Ferdinando Colombo.

Per questa volta, lui ha compiuto un’eccezione, affidando a me il compito d’intervistare nientepopodimenoche un Santo, l’ultimo Salesiano canonizzato: sant’Artemide Zatti. Ho quindi aperto decisamente alla grande il mio ottavo e inaspettato anno di collaborazione.

In realtà avevo già pensato di raccontare, in un post classico, il mio legame con Zatti, rimandandolo però alla prima memoria liturgica o alla festa di san Giovanni Bosco di quest’anno, perché il giorno della canonizzazione avevo raccontato, invece, di san Giovanni Battista Scalabrini, con lui elevato al massimo onore degli altari. Ripubblico lintervista, ma senza trascurare il racconto di cosa c’entro con lui.


Il mio primo incontro è avvenuto leggendo il titolo Zatti parente dei poveri sulla quarta di copertina di alcuni libretti della collana Eroi e di quella Campioni della Elledici, la casa editrice dei Salesiani.

Quando ho ricominciato a leggere libri e opuscoli su Santi e affini, spesso pensavo di prendere anche il suo (le due collane erano confluite in quella chiamata Testimoni), affascinata dal sorriso raffigurato in copertina e incuriosita dai baffi che lo sovrastavano, ma puntualmente lasciavo perdere.

L’occasione è avvenuta quando, nel mio oratorio di nascita, i libretti di quelle collane hanno rischiato di andare buttati via. Col permesso dell’assistente dell’oratorio, ho potuto portarli a casa tutti, compresa la prima edizione di quello su Zatti, che ho letto con molto gusto.

Nel frattempo, avevo già cominciato a conoscere i tratti essenziali della sua vita tramite un libro sui Santi e i candidati agli altari della Famiglia Salesiana. Mi aveva incuriosito il fatto che avesse il nome di una divinità pagana, femminile per giunta; forse c’era stato qualche errore all’anagrafe o sull’atto di Battesimo, o forse no.

La gioia per canonizzazione si è immediatamente accompagnata all’idea di scriverne per Sacro Cuore VIVERE, per la mia solita rubrica Cammini di santità, ma, come ho detto, il direttore ha stabilito diversamente.

Ho ripreso allora il libretto che già avevo e consultato le risorse messe a disposizione sui vari siti della Famiglia Salesiana, per cercare di entrare ancora di più nel personaggio e farlo parlare non come un libro stampato – però in una domanda ho ripreso pari pari quello che scrive l’autore del libretto – ma come uno dei Testimoni che mi è capitato d’intervistare da vivi, quindi non per un artificio letterario.

Ho voluto affrontare, per esempio, anche il tema di come avesse incarnato l’aspetto educativo del carisma salesiano impegnandosi come infermiere, non come docente di materie tecniche, come spesso accade ai Salesiani Coadiutori. Credo allora che sia un modello anche per gli educatori, per i quali il Papa invita a pregare nella sua intenzione per il mese di gennaio, affidata alla Rete Mondiale di Preghiera del Papa – Apostolato della Preghiera.

Il 3 gennaio appena trascorso, poi, appena entrata nella chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Lissone per la Messa in occasione del diciannovesimo anniversario della morte del seminarista Alessandro Galimberti – ogni scusa è buona per citarlo, penseranno i miei più attenti lettori – , ho trovato, su un mobile vicino all’ingresso, proprio un’immaginetta del signor (i Salesiani Coadiutori, se proprio devono avere un titolo, usano quello) Zatti, di quelle diffuse da Missioni Don Bosco.

Avrei potuto lasciarla lì, per far conoscere la sua vicenda a chi, non come me, ne fosse ignaro. Ho preferito prenderla, non solo perché, di fatto, pochi giorni prima pensavo che mi sarebbe piaciuto averne una (seppure sarebbe bastato ordinarla tramite il sito di Linea Valdocco o sperare di tornare a Torino e alla libreria annessa alla basilica di Maria SS. Ausiliatrice), ma ho pensato che fosse lì proprio per me.

In effetti, anche Zatti, come colui per il quale mi trovavo in quella chiesa, è stato in gioventù un “sano malato” che ha continuato ad aggrapparsi alla vocazione, salesiana nel suo caso, diocesana (e spero altrettanto tenace) per Alessandro, il quale è stato exallievo delle Opere Salesiane di Sesto San Giovanni, precisamente del liceo scientifico a indirizzo tecnologico.

Chissà poi se i suoi educatori e professori, a cui ha scritto molte volte ormai seminarista, gli avranno mai parlato di questo loro confratello, o l’avranno affidato alla sua intercessione magari per ottenere il miracolo per canonizzarlo…

 

Ultimamente, sant’Artemide Zatti ha goduto di una popolarità davvero inaspettata. Alcuni spettatori e fedeli si sono sicuramente accorti che durante la Messa delle Esequie del Papa emerito Benedetto XVI, nella parte della Preghiera Eucaristica in cui si nominano i Santi, il cardinale concelebrante a cui era assegnata quella parte ha citato san Giovanni Battista e sant’Artemide.

Io ho subito pensato che fosse molto bello che avessero menzionato gli ultimi due Santi canonizzati (perché il Battista in questione non poteva che essere monsignor Scalabrini), ma altrettanto rapidamente mi sono domandata perché proprio loro e non, magari, altri Santi cui il Papa emerito era più legato. Ne ho concluso che fosse stato utilizzato lo stesso libretto delle ultime canonizzazioni.

Ci ero andata molto vicina: come spiegano bene qui, i libretti per i concelebranti in Vaticano sono diversi da quelli che hanno in mano i semplici fedeli (infatti, nel punto in questione dei libretti per i fedeli, era menzionato solo san Giuseppe sposo della Vergine Maria).

La spiegazione più logica, quindi, non è quella che ha condotto alcuni commentatori a tacciare di sciatteria liturgica, e quindi di mancanza di rispetto verso papa Benedetto XVI, chi ha preparato quel sussidio: si tratta o di un riutilizzo dello stesso libretto con la medesima Preghiera Eucaristica, o di un copia e incolla del testo usato per le ultime canonizzazioni.

Comunque, se questo è servito a far conoscere la sua storia, è un caso lampante di come Dio davvero scriva sulle righe storte (o sulle sviste tipografiche) per far conoscere quanto ha operato nella vita di qualcuno e come Lui solo sia l’artefice di ogni santità.

Dopo questo lungo preambolo, ecco l’altrettanto lunga e densa intervista. Dopo la conclusione, come per i post classici, segnalo due libri utili per conoscere meglio sant’Artemide e i siti Internet a lui dedicati.

 

* * *

 

Dottor Zatti, la ringrazio per avermi concesso quest’intervista…

No, non sono “dottore”, e neppure “don”, come tanti facevano o perché mi scambiavano per un sacerdote, o perché mi ritenevano una persona importante. Non darmi nemmeno del “lei”: siamo o non siamo tutti fratelli e sorelle in Cristo?

Bene. Le tue origini sono invece italiane: sei nato a Boretto, in Emilia Romagna. Come sei finito in Patagonia?

La mia famiglia ha accolto l’invito di un mio zio, caposquadra degli operai che lavoravano alla costruzione di una nuova città, Bahía Blanca. Eravamo tanti in famiglia, si faceva la fame e il lavoro per tutti non c’era; io stesso ho iniziato a lavorare nei campi quando avevo nove anni. Quando sono partito, mi è sembrato di andare incontro all’ignoto: non sapevo ancora che cosa Dio avesse in serbo per me.

Avveniva già da tempo che molti italiani si vedessero costretti ad abbandonare la loro terra. Nei porti in cui arrivavano, venivano subito raggiunti da persone che volevano approfittare di loro. Monsignor Giovanni Battista Scalabrini, che è stato canonizzato insieme a me, le ha definite efficacemente «sensali di carne umana».

Gli emigranti, poi, rischiavano di allontanarsi dalla fede e dalla pratica religiosa, influenzati dai fermenti anticlericali esportati, per così dire, dai loro connazionali. A me e alla mia famiglia è andata diversamente, grazie all’apporto di voi Salesiani.

Appunto, quando e come hai conosciuto i Salesiani? Che cosa ti ha attratto del loro stile di vita?

Li ho conosciuti perché erano i responsabili della parrocchia di Nostra Signora della Mercede a Bahía Blanca, nel cui territorio abitava la mia famiglia. Ho fatto presto amicizia col parroco, don Carlo Cavalli: il suo modo di fare allegro e comprensivo mi ha conquistato. In parrocchia mi sentivo come a casa mia: aiutavo il parroco nelle funzioni religiose, ma trascorrevo anche molto del mio tempo libero nei circoli operai, dove m’interessavo delle situazioni che incontravo.

Oltre al continuo contatto con don Cavalli e con i suoi confratelli, ho letto la vita di san Giovanni Bosco. Posso affermare con sicurezza che quella lettura è stata come una calamita per me: con don Bosco e come don Bosco, ero disposto a seguire Gesù, dovunque e sempre. Così ho accettato la proposta del mio parroco e sono partito per Bernal, come aspirante al sacerdozio salesiano.

Poi ti sei ammalato: cos’hai provato in quei giorni, quando i tuoi sogni sembravano finiti?

Non mi sono mai lamentato con i miei superiori, i quali mi avevano incaricato di assistere un giovane sacerdote malato di tubercolosi, dal quale avevo contratto la malattia. Ero sicuro che Dio mi avrebbe parlato anche attraverso quella condizione: lo ripetevo spesso, nelle lettere ai miei familiari.

Con lo stesso spirito, ho obbedito quando sono stato trasferito a Viedma, con la speranza che l’aria dell’oceano mi avrebbe fatto bene. Effettivamente, mi ha giovato, ma anche la vicinanza dei miei confratelli ha accelerato la mia guarigione. In particolare, mentre di nuovo rischiavo di vedere nero nel mio futuro, don Evasio Garrone mi ha aiutato, suggerendomi di fare voto a Maria Ausiliatrice che sarei sempre rimasto accanto a lui e ai malati. Per farla breve: credetti, promisi, guarii. Solo nel 1915, quando fu inaugurato un monumento a quel mio maestro, svelai quella solenne promessa.

Come ha influito la malattia sulla tua vocazione al sacerdozio?

Perfino quando la malattia sembrava infierire, sono rimasto saldamente attaccato alla mia vocazione salesiana: con don Bosco per tutta la vita. Ma a quei tempi la tubercolosi non dava molte speranze di guarigione. In più, ormai avevo ventiquattro anni: se avessi scelto il sacerdozio dovevo prevedere un percorso di studi ancora lungo, che avrebbe messo a rischio la mia salute. Anche quando avevo ripreso a studiare una volta entrato in aspirantato, avevo avuto parecchie difficoltà col latino, necessario per gli studi da sacerdote. Inoltre, ormai mi ero impratichito nel lavoro nella farmacia e nell’ospedale San José, avviati da don Garrone.

Per questo ho scelto di essere Salesiano Coadiutore. Ho accolto quindi la proposta che mi arrivava dai superiori. Come sempre pensavo che obbedendo avrei fatto ciò che piaceva a Dio.

Spiegami che figura è quella del Salesiano Coadiutore?

I Salesiani Coadiutori esistono dalle origini della nostra Congregazione: i primi erano ragazzi cresciuti all’oratorio di Valdocco, o anche adulti. Tutti, a contatto con don Bosco, capivano subito che potevano spendere le loro professionalità e qualità al servizio dei giovani come insegnanti o istruttori nella Formazione Professionale, o per essere disponibili ai servigi generali: cucina, amministrazione, portineria, ma anche come infermieri. Tutto questo senza diventare sacerdoti.

Il Salesiano Coadiutore emette i tre voti, fa vita comune con tutti i salesiani, ma non entra nello stato ecclesiastico, rimane nello stato laicale. È religioso salesiano, consacrato, a tutti gli effetti, come tutti i Salesiani.

Io, anche se non sono mai stato impiegato nelle scuole, ho cercato ugualmente di lasciare un segno nei ragazzi che ho incontrato e soprattutto quando mi sono trovato davanti a qualcuno di loro, ormai prossimo alla morte: anche solo accompagnarlo nell’altra vita, facendo intravvedere loro il Paradiso che li attendeva, era per me un’opera educativa.

Com’era il tuo lavoro nella farmacia e nell’ospedale di Viedma?

Ho imparato a svolgere ogni tipo di lavoro, dalle pulizie alla stipula dei contratti. Anche quando è stata costruita la nuova sede dell’ospedale, facevo un po’ di tutto. Alla morte di don Garrone, sono diventato principale responsabile, vero direttore e amministratore di quell’opera.

Mi sono qualificato come infermiere nel 1917, tre anni dopo aver ottenuto la cittadinanza argentina. Al termine delle mie giornate, spesso convulse, trovavo il tempo di aggiornarmi sulle ultime conoscenze mediche, leggendo fino a tarda sera.

Non assistevo gli ammalati solo in ospedale, ma anche a domicilio. Di giorno e di notte, inforcavo la mia bicicletta e correvo dovunque venissi chiamato. Quando è stata scoperta la penicillina, il mio lavoro è raddoppiato, ma anche la mia soddisfazione, se riuscivo a migliorare la salute di qualcuno.

Un servizio come il mio poteva facilmente scadere nell’abitudine. Invece, sapevo che la carità di Cristo poteva trasfigurare anche i gesti più banali o meccanici e dare loro un senso, sia per me, sia per quanti visitavo. Anche la vita comunitaria era per me un grande aiuto: cercavo di essere sempre puntuale alle preghiere comuni.

Cercavi davvero di accogliere ogni persona malata?

Proprio così: ricordo una ragazza muta e demente che tenni sempre nella nostra struttura, ma anche un bambino macrocefalo, un piccolo indio di dieci anni, che mi sono rifiutato di far trasferire in un’altra struttura dove l’avrebbero abbandonato: erano loro, ne ero sicuro, ad attirare le benedizioni di Dio sull’ospedale. Molto spesso cedevo il mio letto all’ultimo arrivato, se non c’era altro posto.

Un’altra volta, mi era stato chiesto di non superare i trenta ammalati nelle accettazioni, ma non ho potuto fare a meno di accettare il trentunesimo: se fosse stato Gesù in persona, l’avrei rifiutato? Ancora, non rifiutavo nemmeno i carcerati: quando uno di essi è fuggito dall’ospedale, sono finito a mia volta in carcere perché – mi accusavano – non avevo vigilato. Sono stati gli unici cinque giorni di vacanza in tutta la mia vita.

Qual era, invece, il tuo rapporto con il denaro?

Più avevo debiti, più aumentava la mia fiducia nella Provvidenza. Spesso ripetevo: «Io non chiedo al Signore che mi mandi il denaro, gli chiedo che mi faccia sapere dove ce n’è». I miei veri beni erano i poveri dell’ospedale: le loro vite valevano più di qualsiasi possedimento o somma di denaro. Le istituzioni finanziarie di Viedma mi rispettavano, anche se i miei conti erano quasi sempre “in rosso”.

Oggi noi riflettiamo molto sulla differenza tra “curare” e “prendersi cura” dei malati. Nella tua esperienza, questi due aspetti erano in conflitto o in armonia?

Cercavo di riconoscere la singolarità di ogni malato, con la sua dignità e le sue fragilità, perché la persona malata è sempre più importante della sua malattia. Anche quando non potevo più fare nulla con la medicina, potevo comunque consolare e ascoltare i miei pazienti. Davanti a loro mi mostravo sorridente, scherzavo, facevo battute per creare un clima piacevole; però, appena capivo di non poter fare più nulla, piangevo di nascosto.

Tra me e quanti avevano bisogno delle mie cure c’era un patto basato sulla fiducia e il rispetto reciproci, sulla sincerità, sulla disponibilità: ogni barriera finiva col crollare. Per me, questa relazione aveva una sola fonte: ancora una volta, la carità di Cristo. 

Oltre a essere stato guarito per sua intercessione, come hai sentito la presenza della Vergine Maria nella tua vita?

Non ho mai dubitato della sua vicinanza e del suo aiuto. Alimentavo questa consapevolezza rivolgendomi a lei col Rosario, ogni giorno, e partecipando alle feste e ai pellegrinaggi in suo onore. Il Rosario mi ha anche accompagnato mentre i poliziotti, armati di pistola e machete, mi scortavano in carcere. Quando entravo nelle case dei malati, salutavo sempre dicendo: «Ave Maria purissima».

Ho saputo che un collega, che si definiva incredulo, ha dichiarato: «Davanti a Zatti, la mia incredulità vacilla. Se mai ci sono dei santi sulla terra, questo è uno. Quando mi trovo col bisturi in mano, e vedo lui con in mano il Rosario, sento che la sala si riempie di qualcosa di soprannaturale». Parole che mi mettono in imbarazzo, a dirla tutta.

Nel 1941, però, l’ospedale è stato demolito. Come hai affrontato quel difficile momento?

Riconosco di aver sofferto, e anche parecchio, per quella decisione dei miei superiori, i quali cedettero il terreno per la costruzione dell’episcopio di Viedma. Ho accettato per obbedienza, ma non ho abbandonato i malati: li ho trasferiti nella Scuola Agricola San Isidro, ricominciando daccapo. Del resto, a don Bosco dissero che i cavoli trapiantati crescono meglio: poteva ben valere anche per il mio ospedale.

Papa Francesco, che ti ha canonizzato, ha scritto nella Esortazione apostolica Gaudete et exsultate che la gioia cristiana è spesso accompagnata dal senso dell’umorismo. Anche tu eri capace di fare dell’umorismo, persino in situazioni complicate, giusto?

Certo! Ad esempio, una volta stavo medicando una signora, la quale, visto che sentiva molto male, ha esclamato: «Perdìo, don Zatti!». «Signora – ho risposto –, ricordi che io faccio tutto e sempre per Dio». Un’altra volta, c’era un malato che voleva a tutti i costi ricompensarmi per le mie visite a domicilio. Quando alla fine ha capito che non accettavo denaro, mi ha salutato: «Molte grazie, don Zatti, per tutto. Le porgo i miei più cordiali saluti e i miei rispetti alla sua signora, anche se non ho l’onore di conoscerla». «Neanch’io!», ho risposto, dileguandomi in bicicletta.

Hai vissuto con umorismo anche il tumore per cui sei morto: come hai fatto a mantenerti sereno in quei momenti e nei tuoi ultimi giorni?

La mia serenità era motivata dal fatto che sapevo di dovermi preparare a incontrare il Signore. Non ho lasciato nulla all’improvvisazione: ho perfino compilato in anticipo il mio certificato di morte, lasciando in bianco solo la data. Anche allora cercavo di non far pesare il mio stato di salute: il colorito giallo causato dall’ittero mi faceva somigliare a un limone! Ho accettato di prendere le medicine pur sapendo che non servivano a nulla, commentando con i miei colleghi medici: «Cinquant’anni fa sono venuto qui per morire e sono arrivato fino a questo momento, che cosa posso desiderare di più? D’altra parte, ho trascorso tutta la vita preparandomi per questo momento…».

Tante autorità della Chiesa hanno detto bene di te. San Giovanni Paolo II, beatificandoti, ti ha definito «religioso esemplare, puntuale nel compiere i suoi doveri comunitari e completamente dedito al servizio dei bisognosi». Invece l’attuale Rettor Maggiore dei Salesiani, don Ángel Fernández Artime, ha scritto una lettera per la tua canonizzazione, nella quale ha affermato che sei «servo e artefice di comunione per l’umiltà che lo rende semplice figlio di Dio, vivo della Vita dello Spirito e padre di tutti». Condividi queste affermazioni?

Se il Signore ha voluto servirsi di me per far capire a tutti, a cominciare dai credenti, che prendersi cura del prossimo è uno stile di vita necessario, ne sono ben contento. Sono ancora più felice, però, nel sapere che tanti poveri erano presenti al mio funerale e che moltissimi fedeli, in ogni parte del mondo, quando pensano a me, mi ricordano come qualcuno che ha reso l’amore di Dio presente sulla terra.

Infine, quali consigli ti senti di dare ai medici di oggi?

Direi che devono essere collaborativi tra loro e con il resto del personale, per creare una vera comunità capace di cura verso chi è povero, scartato, rifiutato. Devono anche essere loro stessi una medicina per i malati, pronti ad ascoltarli e a risollevarli con le parole, anche con qualche battuta se occorre.

E ai Salesiani Coadiutori?

Devono desiderare di seguire sempre il Signore come ha indicato don Bosco, vivendo costantemente la propria vocazione nella partecipazione alla missione comunitaria e nell’amore fraterno.

Ho anche un consiglio per tutti, ovvero lo stesso che don Bosco diede a don Cagliero e ai primi missionari salesiani: «Abbiate cura speciale degli infermi, dei bambini, degli anziani e dei poveri, e vi guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini».

 

Originariamente pubblicato su «Sacro Cuore VIVERE» 1 (2023), pp. 8-11 (visualizzabile qui)

 

Per saperne di più

 

Enzo Bianco, Artemide Zatti parente dei poveri, Elledici 2022, pp. 40, € 1,90.

Riedizione del piccolo libro uscito nel 1978, con la cronologia aggiornata alla canonizzazione.

 

Pierluigi Cameroni, Artemide Zatti Salesiano Coadiutore – In bicicletta verso il cielo, Elledici 2022, pp. 224, € 10,00.

Biografia scritta dall’attuale Postulatore generale della Famiglia Salesiana, presenta alcune possibili piste per interpretare la vita santa di Zatti.

Non l’avevo a disposizione quando ho realizzato l’articolo, altrimenti mi sarebbe venuto ancora meglio.

 

Su Internet

 

Sito ufficiale lanciato in occasione della canonizzazione

 

Articoli su di lui sul sito dell’Agenzia iNfo Salesiana (anche pagine seguenti)

 

Sul sito della Famiglia Salesiana, nella sezione dedicata ai Santi, c’è anche lui (non è presente il link diretto: bisogna andare sul mese di novembre e poi cliccare sul suo nome in corrispondenza del 13 novembre, giorno della sua memoria liturgica)


Pagina del sito del Dicastero delle Cause dei Santi con il profilo biografico, lomelia della beatificazione, il decreto sul secondo miracolo e lomelia della canonizzazione

 

Infine, incorporo qui sotto il cortometraggio Zatti nostro fratello, produzione del Bollettino Salesiano Argentina con il sostegno delle Ispettorie Salesiane dell’Argentina, delle Missioni Salesiane (Spagna) e dei Salesiani di Don Bosco nel mondo.


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