Il sorriso dell’anima – Il Beato Giovanni Paolo I (Cammini di santità #41)

Giovanni Paolo I e il chierichetto maltese James
all’udienza generale del 6 settembre 1978 (
fonte)



Non mi aspettavo che sarei tornata a occuparmi del Beato Giovanni Paolo I, anzi, che sarebbe accaduto nel primo numero dell’anno nuovo, l’ottavo dall’inizio della mia collaborazione, della rivista dei Salesiani di Bologna.

Scrivevo infatti nel post classico su di lui, pubblicato il giorno della beatificazione:

Dopo la notizia del decreto sul miracolo, ho iniziato a pensare di dedicargli un articolo per la rivista dell’Opera Salesiana di Bologna, Sacro Cuore VIVERE. Dopotutto, il vescovo di Belluno-Feltre che promosse la raccolta di testimonianze – tanto rilevanti da convincere la Postulazione a svolgere l’inchiesta diocesana lì e non nella sede competente, ossia il Vicariato di Roma – ne pereant testes, come si dice in gergo (letteralmente “affinché non si perdano i testimoni”, cioè raccoglierle prima che i testimoni contemporanei ai fatti morissero), era proprio un Salesiano, come ho scoperto trovando, in fondo alla mia chiesa parrocchiale, una reliquia per contatto (precisamente, una pagina del suo Breviario) proprio di Giovanni Paolo I, col sigillo della Postulazione Generale dei Salesiani.

Alla fine, però, il direttore ha deciso di accorpare i numeri di settembre e di ottobre, per risparmiare sulla stampa, e di dedicare il numero unico a uno speciale sulla devozione al Sacro Cuore; di conseguenza, l’articolo preventivato saltava.

Avevo ricevuto l’avviso a luglio, ma a settembre il direttore mi ha chiesto di preparare l’articolo appunto per il numero di gennaio, sul quale avevo un altro incarico: intervistare nientepopodimenoche l’ultimo Salesiano dichiarato Santo, ovvero sant’Artemide Zatti. Si trattava, ovviamente, di un artificio letterario, che però mi faceva pensare alle altrettanto immaginarie (ma non troppo) lettere del futuro papa Luciani raccolte nel libro Illustrissimi.

Così, finito l’articolo su Zatti, ho iniziato l’altro, sperando che quanto avevo letto recentemente in vista della beatificazione mi concedesse di compiere un buon lavoro. Per il resto, mi affidavo ripetutissimamente al novello Beato, per poter raccontare la sua storia con quel sermo humilis che sapeva padroneggiare.

Anche stavolta ho letto l’articolo a mia madre, come faceva lui con le suore di Maria Bambina addette alla sua persona. In effetti, ho assunto da tempo, come indicazione di metodo, quella che lui aveva ricevuto da giovanissimo seminarista, alle prese con le prime prove giornalistiche.

Nell’articolo, che mi è valso i complimenti del direttore, ho fatto riferimento anche a questi due elementi, mentre il titolo mi è venuto naturale, dopo che ho letto l’omelia di papa Francesco per la beatificazione. Mi è quindi venuto naturale, quando sono passata per le Grotte Vaticane a ottobre, fermarmi a ringraziare Dio di fronte all’urna che custodisce le sue spoglie.

Ho pensato, infine, di ripubblicare l’articolo qui oggi, nel giorno in cui il Rito Ambrosiano commemora la Cattedra di San Pietro, anche perché la data nel Rito Romano, il 22 febbraio, quest’anno coincide col Mercoledì delle Ceneri.

Giovanni Paolo I certamente non si aspettava che sarebbe stato su quella cattedra per così poco tempo. Tuttavia, come spesso accade nelle vite degli autentici Testimoni, non conta però quanto, ma il come si è vissuto. Vale anche per chi riveste un ministero tanto importante come quello che comporta succedere al Principe degli Apostoli.

 

* * *

 

È il 16 settembre 1972. In occasione del Congresso Eucaristico di Udine, papa Paolo VI fa sosta a Venezia. Si trattiene poche ore, ma ascolta con interesse quanto gli racconta il Patriarca, Albino Luciani, circa le sfide a cui va incontro la sua diocesi. Al termine della Messa, mentre entrambi sono sulle passerelle di piazza San Marco, il Papa si toglie la stola e la mette sulle spalle di Luciani. La scena si svolge davanti a ventimila persone: il Patriarca diventa rosso per l’imbarazzo.

Il 26 agosto 1978, meno di sei anni dopo, gli succede proprio lui: con una scelta inconsueta, adotta un doppio nome, Giovanni Paolo. «Intendiamoci», chiarisce nel primo Angelus, «io non ho né la sapientia cordis di papa Giovanni, e neanche la preparazione e la cultura di papa Paolo, pero sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa. Spero che mi aiuterete con le vostre preghiere».

 

Dalle valli bellunesi al Seminario Gregoriano

 

Albino Luciani nasce a Forno di Canale, oggi Canale d’Agordo, il 17 ottobre 1912. La sua famiglia è tanto povera che lui stesso, accompagnato dalla sorellastra Pia, va a mendicare in paese; in più il padre, Giovanni, emigra temporaneamente in Argentina e in Francia.

Albino e un bambino, poi un ragazzo,curioso e intelligente. Con i familiari frequenta la parrocchia di San Giovanni Battista: nella sua formazione umana e spirituale ha un grande peso don Filippo Carli, il parroco. È lui a incoraggiarlo a entrare nel Seminario Minore di Feltre, il 17 ottobre 1923.

Da seminarista, Albino riporta ottimi risultati nelle materie di studio e nel profitto. Soprattutto, scopre di avere un vero talento per il giornalismo. Scrive il suo primo articolo per il bollettino parrocchiale quand’è in seconda Teologia. Don Filippo lo legge, poi da al giovane un’indicazione preziosa: scrivere sempre come se avesse sotto gli occhi l’anziana vecchietta che abita in cima al paese. Anche da sacerdote – viene ordinato il 7 luglio 1935 – terrà sempre in considerazione quel consiglio, per le omelie e non solo.

Dopo due anni in parrocchia, viene chiamato all’incarico di vicerettore del Seminario Gregoriano di Belluno, dove insegna anche varie materie al liceo e in teologia. Vigila con attenzione sui seminaristi, ma anche sulla propria condotta; l’affetto che prova per loro è ricambiato.

Come pro-cancelliere vescovile, incarico che riveste dal novembre 1947, si occupa dell’organizzazione del Sinodo diocesano. Diventa in seguito pro-vicario generale, assistente della Gioventù Femminile di Azione Cattolica e direttore dell’Ufficio Catechistico.

In effetti, il catechismo è sempre stata la sua passione più grande, sin da giovane prete: nell’opuscolo «Catechetica in briciole», del 1949, sminuzza letteralmente le sue conoscenze in materia.

 

Gli anni del sacerdozio

 

Più che ad arricchire il suo curriculum, don Albino e interessato a fare bene il prete. Da sempre si e imposto un regime di vita impegnativo: la sua giornata comincia verso le 5

del mattino, cosi da avere tempo per quello che è più importante. Riserva poi molte ore alla lettura, anche di notte, e si tiene aggiornato sui problemi dell’attualità che lo interessano maggiormente, come le questioni dei lavoratori e la formazione dei giovani.

A don Emilio Del Din, giovane prete di Agordo che nel 1944 gli chiede aiuto circa l’insegnamento della religione, scrive che anche nella scuola può fare del bene: «Procura

solo queste due cose: 1°) un grande e sincero amore ai giovani; 2) base soprannaturale. Il 1° ti farà trovare la via per interrogarli, ti darà il coraggio di affrontare senza timore qualche sacrificio e qualche delusione immancabile; il 2° ti farà avere ai fianchi la benedizione di

Dio, senza la quale, credi pure, si può aver fama, simpatia, chiasso, ma frutto o poco o niente…».

Nello stesso periodo comincia a scrivere sul settimanale diocesano L’Amico del Popolo e a occuparsi di cinema e delle nuove forme di comunicazione. Molti lo cercano come direttore spirituale: li accoglie come se non avesse altro da fare al momento, ha pazienza, mostra le scelte della vita senza sostituirsi a chi e in ricerca.

 

L’Humilitas del vescovo Luciani

 

È grande la sua sorpresa quando apprende di essere stato nominato vescovo di Vittorio Veneto: accetta con semplicità, fidandosi della Provvidenza. Viene ordinato il 27 dicembre 1958 e compie l’ingresso l’11 gennaio 1959. Il suo motto episcopale e costituito da una sola parola, Humilitas (“umiltà”), ed e lo stesso di san Carlo Borromeo. A lui, a san Francesco di Sales e a san Gregorio Magno, del quale medita la «Regola Pastorale», s’ispira per le sue scelte: comincia privilegiando l’incontro con le persone, principalmente attraverso le visite pastorali.

Il catechismo e la preparazione dei catechisti da una parte, la formazione di bambini e giovani dall’altra sono le sue preoccupazioni principali. È profondamente solidale con il mondo operaio, a cui raccomanda, al tempo stesso, di comprendere i problemi che hanno anche i datori di lavoro.

L’umiltà non rimane pero scritta nel suo stemma vescovile. La dimostra con la sobrietà nel vitto e nel vestire, a cui contribuiscono le Suore di Maria Bambina che vivono con lui. A loro sottopone in anteprima le sue omelie, accettando i loro consigli per limare il suo linguaggio e rendere ancora più comprensibili i contenuti.

Il 15 dicembre 1969, con la nomina a Patriarca di Venezia, cui segue la creazione a cardinale il 5 marzo 1973, si sente chiamato a responsabilità ancora maggiori. Le affronta restando fedele a quanto la Chiesa insegna e ai documenti del Concilio Vaticano II, a cui lui stesso ha partecipato.

Continua la sua attività pubblicistica, mentre nelle sue omelie tocca più volte i temi che gli sono cari: ad esempio, in quella del 29 gennaio 1978, parla di don Bosco sottolineando quali siano i suoi modelli ispiratori e le caratteristiche del suo metodo educativo, che considera «validissimo anche oggi».

 

Trentatrè giorni per entrare nel cuore del mondo

 

Quella del doppio nome non è la sola decisione con cui il nuovo Papa rompe gli schemi: anzitutto, vuole che la Messa d’inizio del suo ministero non preveda il rito dell’incoronazione. Neppure vorrebbe la sedia gestatoria, ma accetta di salirci solo per essere più facilmente visibile dai fedeli durante le udienze generali. Ancora, nel suo primo Angelus, esordisce senza usare il “Noi”. Con queste azioni sorprende tanti, ma non coloro che l’hanno conosciuto bene negli anni precedenti.

Dedica la sua prima catechesi, mercoledì 6 settembre 1978, alla virtù dell’umiltà. In essa dichiara: «Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi».

La domenica seguente, all’Angelus, pronuncia frasi che meravigliano e sconvolgono, riferendosi in realtà alle parole del profeta Isaia: «Anche noi che siamo qui, abbiamo gli stessi sentimenti; noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. E papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. I figlioli, se per caso sono malati, hanno un titolo di più per essere amati dalla mamma. E anche noi se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore».

La sera del 28 settembre 1978, prima di andare a dormire, il Papa saluta le Suore di Maria Bambina dell’appartamento pontificio. Le stesse religiose, il giorno seguente, si accorgono che non si è alzato alla solita ora: entrate in camera, lo trovano morto nel suo letto. Il mondo intero piange la sua scomparsa, mentre molti traggono conclusioni tanto fosche quanto errate sull’accaduto.

Col passare dei decenni, il suo ricordo non viene meno, mentre cresce la sua fama di santità. Grazie all’iniziativa di monsignor Vincenzo Savio, vescovo di Belluno-Feltre e Salesiano, vengono raccolte parecchie testimonianze prima ancora che inizi di fatto il processo diocesano.

Il 4 settembre 2022, in piazza San Pietro a Roma, papa Francesco presiede la beatificazione di Giovanni Paolo I. Conclude l’omelia invitando a invocarlo affinché «ci ottenga “il sorriso dell’anima”, quello trasparente, quello che non inganna» e a fare proprie le parole di quella breve preghiera a lui tanto cara: «Signore, prendimi come sono, con i miei difetti, con le mie mancanze, ma fammi diventare come tu mi desideri».

 

Originariamente pubblicato su «Sacro Cuore VIVERE» 1 (2023), pp. 20-21 (visualizzabile qui)

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