Una carità oltre i confini – Don Renzo Beretta (Cammini di santità 44)

 


Quando è morto don Roberto Malgesini, ho visto che molti articoli lo mettevano in parallelo a don Renzo Beretta: erano della stessa diocesi, vivevano a strettissimo contatto con persone messe ai margini dalla società, sono stati uccisi da uno di coloro che aiutavano, tanto da essere definiti, con una formulazione ancora tutta da definire precisamente, “martiri della carità”.

Oltre a quelle menzioni, non mi sono mai interessata troppo a don Renzo, finché il direttore di Sacro Cuore VIVERE non mi ha chiesto di preparare, per il numero in cui sarebbe stato intervistato il cardinal Oscar Cantoni, arcivescovo di Como, alcuni articoli su personaggi legati alla medesima diocesi. Ne ho quindi preparati tre: uno sul già citato don Malgesini, uno sulla Beata Maria Laura Mainetti e uno, appunto, su don Beretta. Quest’ultimo è poi saltato, ma è stato recuperato per il numero di questo mese.

Per iniziare a capire chi fosse, ho riletto il profilo in Sui loro passi, sito e mostra sui Testimoni della diocesi di Como, che già ho più volte elogiato a queste coordinate. Ho poi cercato se Il Settimanale della Diocesi di Como avesse pubblicato degli articoli su di lui, visto che nel 2019 era caduto il trentesimo anniversario del suo omicidio. Ad articolo terminato, il direttore ha commentato che avevo svolto un buon lavoro, tenuto conto che avevo poco su cui lavorare.

Nel luglio scorso, gli ho chiesto chi sarebbe andato nel numero di settembre e in quello di ottobre, l’ultimo dell’annata 2013. Mi ha risposto che il primo era già impaginato e pronto per la stampa, con l’articolo su don Beretta, mentre per il soggetto del mio articolo di ottobre mi ha suggerito un soggetto che, al momento, tengo ancora per me.

Quello che più mi conta riferire è che il direttore ha concluso che ci saremmo poi sentiti per pianificare gli articoli per l’anno prossimo, il che vuol dire che la collaborazione continua per l’ottavo anno!

Mi sono poi accorta che oggi ricorre la Giornata Internazionale della Carità;  non a caso, visto che è l'anniversario della morte di santa Teresa di Calcutta. Don Renzo, ora che lo conosco meglio, mi pare quindi adattissimo.

 

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Canonica della chiesa dell’Immacolata a Como, fine anni Ottanta. Attorno a un tavolo sono seduti quattro giovani, che guardano verso un anziano sacerdote. «Tu cosa cerchi?», chiede quest’ultimo al giovane alla sua sinistra. «Cerco lavoro, padre», racconta l’altro. «Sono da più di cinque giorni in Italia, ho cercato lavoro, ma nessuno me l’ha offerto. Cerco di andare in Svizzera perché là ti danno i documenti e almeno ti sistemano un po’. Non è che qua a Ponte Chiasso siamo solo noi quattro; ce ne sono a centinaia!». Il sacerdote tende la mano e sfiora, quasi per consolarlo, l’altro giovane che ha a destra.

La scena, immortalata dalle telecamere di una televisione, ben rappresenta la vita che da anni ha scelto don Renzo Beretta, il parroco del luogo. La sua azione cerca di abbattere le barriere tra gli immigrati e la società di cui vorrebbero fare parte, per restituirli pienamente alla loro dignità.

 

I primi tempi del suo sacerdozio

 

Don Renzo nasce a Camerlata, quartiere di Como, il 12 giugno 1922. Dal 1934 al 1936 è allievo dell’opera per le vocazioni fondata da don Giovanni Folci a Valle di Colorina. Quando anche lui si sente pronto a diventare sacerdote, lo comunica ai genitori. La madre, molto religiosa, accetta, mentre il padre, il quale si dichiara lontano dalla fede, replica: «Se è quello che vuoi allora fallo perché è giusto». Viene ordinato sacerdote il 27 giugno 1948 a Como, per mano del vescovo monsignor Felice Bonomini.

Il suo primo incarico è come vicario parrocchiale a Livigno, cittadina che in quel periodo non è nemmeno servita da vie di collegamento sicure. Segue il periodo dal 1953 al 1956, sempre come vicario, a Mandello del Lario. Presso la parrocchia di San Lorenzo tiene aperto l’oratorio in base ai turni del vicino stabilimento della Moto Guzzi, per dare ai giovani operai un luogo dove trovarsi. Non si occupa però solo dei giovani, che attrae con il suo fare brioso e allegro, ma cerca di tenere uno sguardo d’insieme. Dal 1956 al 1963 è poi vicario della parrocchia della cattedrale di Como, dove segue la formazione delle ragazze.

Nel 1963 diventa parroco a Solzago, nel comune di Tavernerio. Per i primi tempi cerca di creare la comunità organizzando gite, ma in un secondo momento capisce di dover puntare sugli aspetti più essenziali: l’annuncio della Parola, la celebrazione dell’Eucaristia, la visita agli ammalati in casa e in ospedale.

Riconosce poi che Tavernerio e le cinque frazioni vicine hanno bisogno di una nuova scuola, ma affronta inevitabili questioni burocratiche e molti contrasti. Nel frattempo, la sera, riceve lui stesso i ragazzi, sul modello della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani. Un giorno lo ferma per strada un ricco signore, che ironizza su quell’impegno educativo, a suo dire inutile, perché rivolto a teste di contadini. Alla fine la scuola è pronta in sei mesi; da essa usciranno anche molti futuri laureati.

Parecchi parrocchiani e cittadini definiscono il suo agire duro ed esigente. Per questo, lui mette in chiaro le proprie ragioni in una lettera di Natale, rivolta «alla “mia” gente di Solzago. Vicina o lontana. Credente o non credente»: «È facile svirilizzare e sterilizzare la gente parlando di un amore vago e tacendo delle realtà che hanno come radice l’Amore: l’amore alla verità, l’amore alla libertà, l’amore alla giustizia, l’amore al sacrificio, l’amore alla cultura, l’amore al pagare di persona. Una Fede che non coltiva questo tipo di Amore è molliccia, fangosa, egoista».

 

«Pruvidenza e rebelott»

 

Nel 1984 don Renzo lascia Solzago per Ponte Chiasso, piccola frazione di Como, vicinissima al confine tra Italia e Svizzera. Non gli ci vuole molto per capire che quello è un punto di transito per profughi e migranti irregolari: comincia allora ad allestire un “ufficio assistenza stranieri”, a cui approdano persone bisognose di tutto, respinte alla frontiera dalle guardie svizzere.

L’8 dicembre 1988 arriva in parrocchia il vescovo di Como, monsignor Alessandro Maggiolini, per la festa dell’Immacolata, titolare della chiesa: rimane basito al vedere che perfino sui confessionali sono stati posti dei materassi per ospitare i migranti di passaggio. La sua perplessità è condivisa da quanti guardano con ostilità a quella e ad altre iniziative (compresa l’apertura di un dormitorio invernale), ma non dai numerosi volontari, molti anche svizzeri, che arrivano a portare coperte, cibo caldo e beni di prima necessità. A loro il sacerdote raccomanda di usare la testa, oltre al cuore.

Don Renzo non segue tanto un metodo, quanto un motto: «Pruvidenza e rebelott, rebelott e pruvidenza», come a dire che, pur in quella situazione a volte caotica, lui e quanti l’aiutano cercano di essere la mano di Dio per tanti. A un giornalista della TV svizzera che lo intervista, risponde: «Cerco di fare la mia parte: è un primo intervento, per evitare che vadano a rubare». Quando l’intervistatore incalza, domandandogli se quella gente cerchi di entrare in Svizzera o di scappare da essa, chiarisce: «Voi avete le vostre leggi e siete tenuti ad osservarle. Io, grazie a Dio, posso giocare in un modo, secondo me, più ampio e più umano; non chiedo mai perché… del resto se scappano è perché sono disperati, ed anche un bel po’».

Pur continuando a manifestare un carattere esigente, l’accoglienza è ormai il suo tratto distintivo: «Dimmi» e «Grazie» sono parole che affiorano spesso sulle sue labbra, ma partono dal cuore. La sua scrivania è piena di libri aperti, sottolineati, commentati. Ogni mattina, alle sette, dopo un’ora di meditazione e studio della Parola di Dio, scende in chiesa, per affidare al Signore l’impegnativa giornata che l’attende.

 

Una morte improvvisa, un’eredità continua

 

Il 20 gennaio 1989, verso le 15.35, don Renzo apre la porta della sua canonica. Si trova davanti Abdel Hakim Lakhoitri, trentunenne, scappato dal Marocco, da lui aiutato altre volte. Quel giorno, però, non vuole solo da mangiare, ma anche del denaro. Il sacerdote, in quel momento impegnato, gli chiede di tornare più tardi. A quel punto, il giovane estrae un coltello: don Renzo cerca di difendersi, rompendogli un ombrello in testa, ma viene ferito sette volte all’addome.

Si precipita da lui don Giovanni Meroni, il vicario parrocchiale, il quale riconosce subito l’aggressore e chiama i soccorsi. Don Renzo, pur ferito gravemente, cerca di rassicurare il confratello: «Non è niente; voleva solo spaventarmi…». Muore poche ore dopo, trasportato all’ospedale Sant’Anna di Como, dov’è accorso anche monsignor Maggiolini, che nel funerale ha per lui parole di elogio e di rammarico: «Amava il fratello perché si sentiva amato da Dio».

Il suo corpo riposa nel cimitero di Monte Olimpino. Il responsabile dell’omicidio viene invece condannato a sedici anni e quattro mesi di reclusione, pena ridotta di due anni in Cassazione. Dopo otto anni, anche grazie a un indulto, viene scarcerato e rimpatriato in Marocco.

Subito dopo la scomparsa di don Renzo, la Caritas diocesana di Como non riesce quasi a far fronte alle persone rimaste prive del suo aiuto. Il 20 gennaio 2002 viene poi dedicato alla sua memoria il Centro di Ascolto dipendente sempre dalla Caritas.

A molti la sua storia è tornata alla mente il 15 settembre 2019, pochi mesi dopo il ventesimo anniversario, quando si è diffusa la notizia dell’uccisione di un altro sacerdote di Como, don Roberto Malgesini, anche lui impegnato a prestare soccorso a migranti e senza fissa dimora.

Il 20 gennaio 2019, nell’Eucaristia che concludeva le celebrazioni per il ventennale, monsignor Oscar Cantoni, vescovo di Como, ha ricordato: «Le grandi scelte non si improvvisano e dal momento che si muore come si è vissuto, don Renzo, nel dono di sé, offerto in sacrificio, ci ha sintetizzato lo scopo della sua vita: essere sacerdote e vittima, come Gesù, pane spezzato per la vita del mondo, di cui facciamo memoria ogni volta che celebriamo l’Eucaristia».

 

Originariamente pubblicato su «Sacro Cuore VIVERE» 5 (settembre 2023), pp. 20-21 (visualizzabile qui

 

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Oltre agli articoli di cui parlavo prima, la mia fonte principale è stata questo documentario, che mi sento di riprodurre perché anche voi possiate capire, com’è successo a me, qualcosa in più di don Renzo.


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