Don Andrea Santoro, martire del dialogo (Cammini di santità #19)
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Prima che finisca il mese di ottobre,
tradizionalmente dedicato alle missioni, riprendo l’articolo uscito questo mese
su Sacro Cuore VIVERE.
Di don Andrea Santoro sapevo qualcosina, ma
non mi ero mai addentrata a leggerne gli scritti e a capire cosa facesse prima
di partire per la Turchia. Sono partita quindi dalle sue lettere, scoprendo quale
fosse la sua idea di dialogo e come la concretizzasse.
Il titolo è lo stesso che ha messo il
direttore. Per quanto ne so, per don Andrea non è aperta nessuna causa per
dimostrarne il martirio; almeno, il sito ufficiale non ne fa menzione. Per questa
ragione, nelle tags che accompagnano l’articolo non userò quella di “martire”,
sebbene la fama che l’accompagna sia proprio quella di qualcuno che è stato
ucciso perché testimoniava il Vangelo in un ambiente non cristiano e a rischio
della vita.
* * *
Trabzon, Turchia, primi giorni del 2006. Un
gruppo di ragazzi, piuttosto chiassoso, entra nella chiesa di Santa Maria. Un
uomo si avvicina a loro e ricorda che quello è un luogo sacro, come la moschea,
alla quale, forse, sono più abituati. Alcuni dei ragazzi si fanno a loro volta
più vicini e iniziano a tempestare di domande l’uomo, anzi, il sacerdote che li
ha accolti: «Ma sei qui perché ti hanno obbligato?». «No», risponde lui, «sono
venuto volentieri, liberamente». «E perché?». «Perché mi piace la Turchia.
Perché c’era qui una chiesa e un gruppo di cristiani senza prete e allora mi
sono reso disponibile. Per favorire dei buoni rapporti tra cristiani e
musulmani…». «Ma sei contento?», incalzano. Sorridendo, il sacerdote replica:
«Certo che sono contento. Adesso poi ho conosciuto voi e sono ancora più
contento. Vi voglio bene». A quelle parole, una ragazza del gruppetto esclama:
«Anche noi ti vogliamo bene». Raccontando quest’episodio in una lettera, il
sacerdote, don Andrea Santoro, lo paragona a un filo d’erba verde che appare
nella steppa.
Il ministero a Roma
Don Andrea nasce a Priverno, in provincia di
Latina, il 7 settembre 1945. Nel 1958 entra nel Pontificio Seminario Romano,
per frequentare le scuole medie. Trascorre gli anni della formazione al
sacerdozio senza ripensamenti eccessivi e supera gli esami con voti molto
buoni. Col tempo in lui si fa strada un notevole interesse verso la Sacra
Scrittura e il mondo in cui essa si è formata, ovvero Israele e le terre
vicine.
Don Valentino Salvoldi, teologo e scrittore,
è stato suo compagno di studi: lo ha conosciuto al Seminario Maggiore. Ricorda
che con lui, negli anni in cui si svolgeva il Concilio Vaticano II, preferiva
passare il tempo della ricreazione non giocando a pallone o parlando di
argomenti leggeri, ma discutendo sul futuro della Chiesa e pregando,
specialmente con il Rosario, perché un giorno Dio concedesse loro di partire
per le missioni estere.
Andrea viene ordinato sacerdote il 18 ottobre
1970, ma non viene subito mandato in missione. Il suo primo impegno pastorale è
nella parrocchia romana dei SS. Marcellino e Pietro al Casilino, poi viene
inviato a quella della Trasfigurazione, come viceparroco. Diventa nel 1981
parroco di Gesù di Nazareth, a Verderocca: la chiesa come edificio non c’è
ancora, ma lui, come nelle precedenti destinazioni, cerca di costruire la
comunità. Ogni occasione è utile per incontrare le persone: al mercato, nei
corsi di preparazione al matrimonio, nelle feste organizzate perché le famiglie
s’incontrino a loro volta. La sua ultima parrocchia romana è quella dei SS.
Fabiano e Venanzio, dove arriva nel 1994.
Tutto il Medio Oriente è “terra santa”
Nel cuore di don Andrea, però, l’Oriente
continua a esercitare un’irresistibile attrattiva. In due occasioni, nel 1980 e
nel 1993, trascorre alcuni mesi in Terra Santa. Subito dopo essere arrivato ai
SS. Fabiano e Venanzio, confida al suo viceparroco, don Marco Vianello, il suo
sogno che nel 2000, a trent’anni dall’ordinazione, diventa realtà. Il cardinal
Camillo Ruini, Vicario del Papa per la diocesi di Roma, gli consente quindi di
partire come “fidei donum”, ovvero come dono della Chiesa di Roma a una Chiesa
“sorella”.
L’11 settembre 2000 don Andrea si stabilisce
a Urfa, non molto lontano da Harran, l’antica città del patriarca Abramo.
Questa figura è, per lui, anzitutto un modello di accoglienza: a lui intitola
la casa dove vive, la “Ibrahimin evi” (“Casa di Abramo” in turco). Per lui
tutto l’Oriente è “terra santa”, non solo la Palestina, Gerusalemme e le altre
città dove effettivamente si è svolta la vita terrena di Gesù. Scrive: «È
proprio questa una delle caratteristiche più peculiari del Medio Oriente (e in
esso anche della Turchia): essere il luogo dove Dio storicamente ha deciso di
posarsi, di parlare, di agire in modo speciale, di entrare a fondo nella storia
degli uomini». Per questa ragione, nel giugno 2000, ha fondato l’associazione
«Finestra per il Medio Oriente»: per saldare, almeno in parte, quella sorta di
«debito di riconoscenza» che lui per primo vive nei confronti di quelle terre.
Il senso della sua presenza
Per don Andrea il dialogo passa
necessariamente per l’incontro con l’altro. Nei periodici ritorni in Italia,
necessari per rinnovare il visto, organizza conferenze, ritiri e appuntamenti
per giovani e adulti, proprio per far incontrare due mondi apparentemente
distanti, ma che, secondo lui, possono imparare l’uno dall’altro. È poi
persuaso che, per far continuare la presenza cristiana in Medio Oriente, siano
necessarie vocazioni speciali, di persone «idonee a venire», preparate e
consapevoli. Lui stesso s’impegna a essere così: affronta ostiche lezioni di
turco e mette in pratica, già con i suoi compagni di corso, uno stile di
presenza silenziosa ma capace di incidere.
Nel gennaio 2003 don Andrea comincia il
servizio pastorale a Trabzon, l’antica Trebisonda. La comunità cristiana del
luogo conta meno di dieci fedeli. Don Andrea fa restaurare l’antica chiesa di
Santa Maria per renderla più bella e accogliente. L’intento appare riuscito:
nelle ore in cui la chiesa è aperta, iniziano ad affacciarsi uomini e donne,
specie giovani, incuriositi dal cristianesimo.
Nelle sue lettere non manca di domandarsi la
ragione della sua presenza. «Sono qui», annota il 1° febbraio 2004, «per
abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo, prestandogli la
mia carne». Così partecipa alle feste della religione islamica e spiega il
senso di quelle cristiane, passa nei quartieri delle prostitute sgranando a
mezza voce il suo Rosario e dialoga con chi, dalla curiosità, passa al
desiderio di capire.
«Ha preso tremendamente sul serio Gesù
Cristo»
Tuttavia, col tempo, si moltiplicano azioni
di disturbo e visite nel cuore della notte, non sempre gradite. Per la prima
volta don Andrea confida di avere paura, ma sa di dover restare al suo posto.
Domenica 5 febbraio 2006, nel primo
pomeriggio, sta pregando in chiesa. Due spari lo raggiungono alle spalle: cade
a terra, privo di vita, sotto lo sguardo sgomento di Gulhan, un catecumeno, e
di Loredana Palmieri, la volontaria che vive con lui. Dell’assassinio viene accusato
un sedicenne, Ouzhan Akdil. La madre del sacerdote, Maria Polselli, offre il
proprio perdono «alla persona che si è armata per uccidere suo figlio» e prova
una grande pena per lui «essendo anche lui figlio dell’unico Dio che è amore».
I funerali si svolgono nella basilica di San
Giovanni in Laterano. Il cardinal Ruini, nella sua omelia, afferma: «Don Andrea
ha preso tremendamente sul serio Gesù Cristo e, da quell’uomo tenace, rigoroso,
addirittura testardo che era, ha cercato con tutte le sue forze di muoversi
sempre e rigorosamente nella logica di Cristo, e ancor prima di affidarsi a
Cristo nella preghiera, non presumendo certo delle proprie forze umane».
Anche papa Benedetto XVI lo ricorda in almeno
due occasioni. Alla fine dell’Udienza Generale dell’8 febbraio 2006 e il 2
marzo 2006, incontrando il clero della diocesi di Roma, quando dichiara:
«Abbiamo il luminoso esempio di Don Andrea che ci mostra cosa vuol dire “essere
sacerdote” sino in fondo: morire per Cristo nel momento della preghiera e così
testimoniare, da una parte, l’interiorità della propria vita con Cristo e,
dall’altra, la propria testimonianza per gli uomini in un punto realmente
“panperiferico” del mondo, circondato dall’odio e dal fanatismo di altri. È una
testimonianza che ispira tutti a seguire Cristo, a dare la vita per gli altri e
a trovare proprio così la Vita».
Originariamente
pubblicato su «Sacro Cuore VIVERE» 6 (ottobre 2018), pp. 16-17 (visualizzabile
qui)
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