Monsignor Giancarlo Boretti: il servizio dovuto a Dio è bellezza
Mosè
pascola il gregge del suocero Ietro, decorazione musiva, chiesa di San Vitale, Ravenna (particolare) |
Chi è?
Giovanni
Carlo Mario Boretti (così al Battesimo) è nato a Cusago, in provincia e diocesi
di Milano, il 14 giugno 1934. Ordinato sacerdote nel Duomo di Milano il 28
giugno 1957, si è poi laureato, il 1° giugno 1960, presso il Pontificio Istituto
Ambrosiano di Musica Sacra. Subito dopo l’ordinazione è diventato professore di
canto liturgico nel Seminario di Milano: dal 1957 al 1958 nella sede di Seveso,
dal 1958 al 1982 in quella di Venegono Inferiore.
Nel
1982 è stato nominato parroco della parrocchia dei Santi Martiri Gervaso e
Protaso a Trezzo sull’Adda, ma ha continuato a collaborare con gli uffici del
Culto Divino e della Pastorale Liturgica della Curia milanese. Terminato l’incarico,
è stato destinato come vicario parrocchiale, poi come residente, alla
parrocchia di Santa Tecla nel Duomo di Milano.
Dal
1997 al 2009 è stato Responsabile del Servizio per la Pastorale Liturgica:
nello stesso anno dell’inizio di quell’incarico è diventato Canonico onorario
del Capitolo minore del Duomo di Milano, diventando in seguito Canonico
effettivo.
È
morto venerdì 19 ottobre 2018.
Cosa c’entra con me?
So
di non essere normale, per tutta una serie di ragioni. Una di queste è che
guardo sempre i necrologi di Avvenire,
per vedere se per caso è venuto a mancare qualche prete che conosco. Oggi,
purtroppo, è successo qualcosa di simile: ho letto, infatti, che è morto
monsignor Giancarlo Boretti.
Ai
non ambrosiani, e forse anche a qualcuno di essi, questo nome potrebbe
risultare sconosciuto. Gli operatori della pastorale liturgica, almeno quelli
più accorti, lo conoscono eccome: a lui si devono le più recenti traduzioni cantabili degli inni della nostra Liturgia delle Ore.
Quando
avevo iniziato a occuparmi di storie, fatti e persone della mia Chiesa locale,
mi sembrava un espertone inarrivabile, severo custode di una liturgia rimasta
perlopiù inalterata nel corso dei secoli. Quest’immagine austera si è
sgretolata quando, passando per l’Ufficio Liturgico di piazza Fontana, ho
notato la scrivania che aveva ancora, pur non essendo più il responsabile in
carica: era stracolma di pupazzetti, soprammobili, statuine raffiguranti…
mucche. Avevo già conosciuto un sacerdote collezionista di animaletti, ma erano
gufi, animali saggi per definizione, non placidi ruminanti come quelli.
Passò
qualche tempo, poi venne anche per me il momento di cercare lavoro dopo la
laurea. Avevo iniziato a lasciare copie del mio curriculum e mi ero iscritta a varie agenzie per il lavoro, ma
senza risultati o quasi. Un giorno sono stata chiamata per un colloquio per una
famosa catena di negozi di articoli sportivi: ho accettato, in verità, senza
troppa convinzione, dato che in Educazione Fisica me la cavavo sempre con la
sufficienza perché le mie prestazioni sportive non erano eccelse, ma
m’impegnavo davvero tanto.
Il
colloquio fu disastroso: era uno di quelli collettivi, in cui i candidati
dovevano dare mostra sia delle loro conoscenze sportive, sia delle loro
capacità di lavorare in condizioni di stress. Ho lasciato la sede convinta che
non sarei mai stata assunta e che, in ultima analisi, ero un fallimento
completo. Sentivo di dover chiedere aiuto a qualcuno, così mi sono incamminata
verso il Duomo.
Ho
atteso il mio turno, poi mi sono infilata nel primo confessionale libero. Con
mia sorpresa, mi sono trovata davanti proprio monsignor Boretti. Mi sono
ampiamente sfogata con lui, anche perché mi ero resa conto che considerarmi un
danno vivente costituiva un peccato parecchio grave. Con aria serena, trasse
dal suo Breviario, o comunque da un libro che aveva davanti, una cartolina, da cui ho tratto l’immagine in apertura di post.
Mi disse che
io ero come la pecorella raffigurata, accarezzata dalla mano di Mosè: non dovevo scordarmi mai che sono sotto la mano di Dio. Vedendomi interessata, acconsentì a prestarmela, perché io la riproducessi a mia volta, proprio per non
dimenticarmi quelle parole.
Appena
arrivata a casa, ho passato la cartolina allo scanner. Quanto al modo per
restituirgliela, l’ho messa in una busta chiusa con un biglietto di
ringraziamento e l’ho lasciata al Palazzo dei Canonici, di fronte all’ingresso
laterale del Duomo. Dato che avevo messo il mittente con l’indirizzo, mi ha
risposto, ma non riesco a ricordare, al momento, dove sia finita quella
lettera.
Da
allora in poi mi è capitato d’incrociarlo un’altra volta e gli ho fatto
presente che tenevo sempre a mente il suo consiglio. Credo di avergli
chiesto qualche dritta per il mio impegno canoro, nella mia parrocchia di
nascita e col Gruppo Shekinah, vedendolo sgranare gli occhi per la meraviglia.
A volte, poi, mi ricordavo di lui sentendolo cantare, con voce sempre più tremula,
in qualche celebrazione in Cattedrale, dal vivo o in diretta televisiva.
Quando
è morto il cardinal Tettamanzi, dopo essermi dispiaciuta in prima persona,
mi sono ricordata che erano grandi amici sin dai tempi del Seminario. Come
ricorda lui stesso in questa intervista in video, condividevano non solo gli
studi – erano della stessa classe di ordinazione sacerdotale – ma anche la
passione per la musica: nel repertorio diocesano Cantemus Domino ci sono composizioni di entrambi.
Da
qualche mese a questa parte, la coordinatrice del gruppo liturgico della mia
parrocchia di residenza mi ha chiesto più volte di rimpiazzare lei o qualcun
altro come voce-guida. Non ho una particolare preparazione, né so come dirigere
il canto dell’assemblea, ma mi metto d’impegno, proprio come monsignor Boretti
faceva nonostante il declinare degli anni. Mi era venuta voglia di chiedergli
di pregare per me, ma non vedendolo più in Duomo ho supposto, non sbagliandomi,
che non avesse più la forza di continuare quel suo servizio.
Il suo Vangelo
L’impegno
di monsignor Boretti è durato molti anni, con l’unico intento di rendere più
belle le celebrazioni liturgiche, certo che “liturgia”, nella sua accezione originaria in greco, significa “atto” o “servizio dovuto”, in questo caso a Dio. Senza arrivare agli eccessi di altri
colleghi, in modo pacato, ha cercato di far presenti quali dovessero essere le
scelte più giuste, i canti più adatti, i momenti di silenzio.
Come
l’arte sacra, anche il canto manifesta la presenza di Dio, o almeno ci prova
(con buona pace di chi dice che Shekinah
è un nome pretenzioso per il coro di cui faccio parte). Se da una parte monsignor Luciano Migliavacca affermava che per lui c’era solo la «musica bella»,
che come tale è sempre moderna e attuale, il suo confratello faceva notare
anche l’importanza dei gesti di tutte le persone coinvolte, a cominciare da chi
presiede i riti liturgici.
Così
scriveva, in uno dei suoi contributi:
Anni fa, a noi seminaristi veniva detto: «La casa del
sacerdote ha le pareti di vetro: tutti ci guardano dentro». Metaforicamente,
questo vale anche per il suo modo di celebrare e di presiedere le azioni
liturgiche. Al di là di critiche o di osservazioni superficiali, c’è un buon
senso della fede - e della liturgia - che accompagna con esigenza la
partecipazione alla preghiera della Chiesa.
Come
ha scritto il suo successore in Pastorale Liturgica, monsignor Claudio Magnoli,
ora è il momento di affidarlo al Signore, perché possa cantarne in eterno la
lode. Penso proprio che domani alle 11, ai suoi funerali in Duomo, si dovrà cantare
davvero bene.
Per saperne di più
Nella
sezione “Vivere la Chiesa” del Portale della Diocesi di Milano sono contenute
le schede (in tre pagine) curate da monsignor Boretti e raccolte nel libro Qualcosa sul celebrare, ormai esaurito.
È
esaurito anche il volume Cantate inni al
suo nome con la traduzione, in versi novenari, degli inni della Liturgia
delle Ore, ma al Servizio di Pastorale Liturgica forse ne hanno ancora qualche
copia.
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