Io c’ero #34: GMG 2023 – A Lisbona, per servire come Maria (seconda parte)


In cammino verso Sintra (foto mia)


Il secondo giorno degli incontri Rise Up, ovvero delle catechesi, mi ha portato nuove consolazioni e incoraggiamenti. Con i miei compagni del Gruppo Shekinah non ho ascoltato dal vivo le parole del Santo Padre, ma ho vissuto una breve gita culturale, suggellata da un nuovo e inatteso incontro con un Testimone da scoprire.

Nel terzo giorno, invece, ho vissuto la riconciliazione con Dio e con i fratelli, riconoscendo nella Croce di Cristo il segno dell’Amore più grande in cui credere.

 

3 agosto

Come a Pechino Express... o forse no?

 

Ho passato piuttosto tranquillamente la seconda notte nel garage della mia famiglia ospitante, anche se ammetto di aver avuto un po’ caldo. Dopo la rapida colazione, io e le mie compagne, ormai tre, ci siamo incamminate per andare a prendere l’autobus che ci avrebbe condotte al check-in di Barcarena; da lì saremmo andate al secondo luogo delle catechesi, la chiesa di San Michele Arcangelo.

Non ricordo se è accaduto allora o il giorno seguente (se qualcuna di voi che era con me mi legge, mi aiutate, per favore?), ma, mentre aspettavamo il nostro mezzo, è passata una signora sconosciuta, che si è offerta di caricarci gratuitamente sulla sua auto!

In quei giorni, raccontando quel che mi capitava ai miei familiari, ma anche parlando con una mia compagna, avevo spesso paragonato le mie peripezie a quelle che si vedono in programmi televisivi come Pechino Express: spostamenti veloci e con mezzi a volte carenti, pranzi e cene dove capitava, fatiche fisiche da superare.

Inoltre, come i personaggi che partecipano a quel programma sono per certi versi agevolati dalla produzione – prima o poi, infatti, trovano ospitalità dalle persone locali – così anche noi eravamo pellegrini, ma la nostra accoglienza era favorita da un’organizzazione a monte.

Quella signora, invece, mi sembrava essersi mossa per puro spirito di carità cristiana, o di semplice generosità umana; mi piace pensare che sia stata davvero inviata dalla Provvidenza divina, o forse ho letto troppe vite di Santi e affini.

 

L’amicizia sociale secondo san Charles de Foucauld


La chiesa luogo di parte delle catechesi (foto mia)

La seconda catechesi è stata tenuta da monsignor Daniele Gianotti, vescovo di Crema. Non è tra i vescovi lombardi con cui ho avuto a che fare più direttamente, per cui ero molto interessata ad ascoltarlo.

Anche stavolta la Messa ha preceduto la catechesi vera e propria ed è stata celebrata in Rito Ambrosiano; come il giorno precedente e quello seguente, al Vangelo del giorno era sostituita una sezione del brano del Vangelo di Luca relativo alla Visitazione.

Monsignor Gianotti ha brevemente messo in parallelo la cattiva notizia, ovvero la morte del figlio Assalonne, ricevuta dal re Davide nella Lettura, e la Buona Notizia che è Gesù stesso, portata nel grembo da Maria e riconosciuta da Elisabetta e dal figlio non ancora nato Giovanni, tramite lo Spirito Santo.

Il grosso della sua omelia è stato però occupato dal racconto della vita di san Charles de Foucauld (immaginando che non tutti i giovani presenti la conoscessero) e di come lui, proprio meditando sul Vangelo della Visitazione, avesse compreso quale dovesse essere il suo stile di testimonianza: portare Gesù dove non è conosciuto e non lo si può predicare esplicitamente, tramite l’amicizia e la carità verso tutti.

Proprio l’amicizia sociale era il tema della catechesi, a partire dall’enciclica Fratelli tutti. Come, in quella precedente, si era riflettuto sull’ecologia integrale, non sull’ecologia pura e semplice, anche l’amicizia sociale doveva essere qualcosa che andasse oltre la semplice simpatia reciproca: è qualcosa che cambia il mondo a partire dai buoni rapporti tra le persone, tra i vicini di casa, nei quartieri, nella città. È qualcosa che sento particolarmente vivo, da quando, ormai più di dieci anni fa, mi sono ritrovata a traslocare.

 

«L’amicizia s'è fatta Chiesa»

Foto di gruppo nell’angolo del coro (ricevuta via WhatsApp)

Come il giorno prima, anche noi di Shekinah ci siamo divisi in piccoli gruppi, esattamente come gli altri giovani presenti, per confrontarci sul tema suggerito. Effettivamente, toccava molto da vicino anche me, per le mie difficoltà ad avere amici veri, che non mi tengano con loro solo per pietà o per avere un bersaglio da prendere in giro (lo raccontavo già nel post di ieri). 

In particolare, mi ha condotta a riflettere una frase di Gianrico Carofiglio, da Le perfezioni provvisorie, presentata sul Diario di bordo dei pellegrini italiani. Riprendendo un concetto del filosofo Theodor Adorno, lo scrittore afferma: «Bisogna sempre sentirsi un po’ fuori posto».

Anche a me accade molto spesso di sentirmi così: se da una parte non fatico a entrare in un nuovo gruppo o in una nuova realtà, com’è accaduto quando ho cambiato parrocchia – e solo perché ho dovuto traslocare, beninteso – , dall’altra s’insinua in me l’impressione di non appartenere del tutto a quel luogo e a quelle persone, perché il mio modo di agire e di parlare tende a respingere gli altri.

L’ho fatto presente nella condivisione, che però, come a volte mi accade, si è trasformata in un moto di commozione. Le lacrime di gioia che speravo di poter versare, a cui pensavo sul finale della Festa degli Italiani, erano arrivate: mi ero resa conto proprio in quell’istante di essere più circondata di amore di quanto pensassi. Anche qualcuna delle mie compagne più giovani, al sentirmi parlare così, ha riconosciuto di essersi commossa.

Anche stavolta, terminata la catechesi, col coro ho eseguito un paio di brani extra. In particolare, mi sono permessa di avanzare una richiesta, ovvero cantare Spirito di Luce. Mi sembrava attinente a quel tema, per quei versi che recitano: «La libertà s’è fatta vera / l’amicizia s’è fatta Chiesa».

Mi è venuto da dedicarlo a monsignor Gianotti, il quale, nella risonanza dopo la condivisione, aveva auspicato che si parlasse, oltre che di una Chiesa “madre”, “maestra” o “sposa”, come in passato, di una Chiesa “amica”, che venga incontro alle inquietudini dei giovani proprio com’era accaduto a sant’Agostino, altro «maestro d’inquietudine», così l’ha definito, come san Charles de Foucauld.

Di lì a poco, ci ha raggiunti un altro dei preti che conosco, che, con mia grande meraviglia, è stato destinato alla costituenda Comunità Pastorale in cui vivo. È un grande appassionato di musica e apprezza moltissimo i canti di Shekinah: complimentandosi col nostro direttore, ha auspicato di riuscire a organizzare un concerto nella sua nuova destinazione (mi è venuto da aggiungere mentalmente: se possibile, proprio nella mia chiesa parrocchiale!). Prima che si allontanasse per raggiungere quelli che, ancora per poco, erano i suoi giovani, l’ho rincorso per salutarlo come si deve.

Così, rinfrancata e consolata da quell’incontro e dalle parole dei miei compagni, ho gustato molto di più il nuovo pranzo al Pingo Doce: riso con pollo e contorno di carote e cavolini più banana, a cui ho aggiunto, a pagamento, un budino di latte.

 

Una gita a... Sintra

 

Il Palazzo Nazionale di Sintra (foto mia)


Prendo in prestito il titolo di una rubrica de La Settimana Enigmistica per presentare la gita che abbiamo deciso di compiere, un po’ per staccare dalla folla, un po’ per vedere qualcosa del Portogallo che non fossero i tetti delle case che spuntavano da sopra la calca dei pellegrini. Purtroppo, però, abbiamo lasciato perdere l’arrivo di papa Francesco, impegnandoci a recuperare il testo del discorso in un secondo momento.

Sintra è una cittadina veramente meravigliosa, situata in collina, con numerosi punti d’interesse; non a caso, è stata nominata Patrimonio Mondiale dell’Umanità (provate a immaginare l’ultima frase letta con la voce di Alberto Angela...).

Quello in cui molti di noi si sono fermati è il Palazzo Nazionale, dove sono vissuti re e regine, in ambienti a volte ricostruiti, a volte rimasti intatti; tutti, però, ricoperti dai caratteristici azulejos, perfino le cucine, i cui comignoli rappresentano il simbolo della città.

A proposito di simboli, mentre ci dirigevamo verso il centro storico (e ti pareva che non mancassero le salite....), ci siamo imbattuti in molti venditori ambulanti, perlopiù artigianali. A una di queste una mia compagna ha chiesto perché la sardina è presente su molti ricordini. Secondo la sua interlocutrice, c’entra di sicuro il fatto che è un pesce molto diffuso, ma soprattutto la simbologia cristiana: l’evangelizzazione in territorio portoghese è molto antica e, come avremmo appreso più tardi visitando il Palazzo, a lungo Chiesa e autorità civile sono andate d’accordo, purtroppo non sempre per fini nobili.

Anche per questa ragione, da un’altra ambulante, ho acquistato un ciondolo con un pesciolino. In realtà, avevo pensato di usare le perline del mio Rosario del pellegrino per farne un portachiavi-decina da regalare alla famiglia ospitante, tanto più che una delle mie compagne mi aveva regalato il proprio Rosario del kit.

 

Chiacchierando con Elena

 

Dopo una pausa dolcissima, di cui rendo conto a fine post, ho iniziato a conversare con Elena, una delle mie compagne più giovani. Ci siamo scambiate impressioni sulle catechesi, racconti di altri viaggi, considerazioni sul mio modo di scrivere e di agire. Le ho anche provato a spiegare qualcosa riguardo cause di beatificazione e affini, dietro sua richiesta, ma soprattutto le ho espresso le mie difficoltà relazionali, vocazionali e lavorative.

Mi ha molto rincuorato vedere che mi stesse ascoltando senza annoiarsi, anche se mi ha fatto presente, come altri prima di lei, che proprio la mia frenetica parlantina costituisce spesso un ostacolo a una buona presentazione di me stessa.

 

Pellegrini e amici di un giovane missionario

 

Abbiamo anche cenato a Sintra, nuovamente grazie al menu del pellegrino. Più che quello che ho mangiato, stavolta voglio sottolineare un incontro con alcuni giovani, pellegrini provenienti dalla diocesi di Treviso (anche se la loro parrocchia è in provincia di Padova) e don Matias, il sacerdote che li guidava.

Le mie compagne con cui ho cenato si sono presentate e hanno raccontato che facevamo parte di un coro. Dopo alcuni istanti in cui ci siamo confrontate su quale canto eseguire, abbiamo intonato parte dell’inno della GMG 2016.

Il don e i giovani hanno subito ricambiato con un canto che sentivano molto personale: si vedeva dal tono festoso, anche se velato di una strana nostalgia, con cui lo cantavano. L’ho molto apprezzato e, visto che cerco sempre di ampliare il mio personale repertorio, ho chiesto di chi fosse.

Un giovane mi ha risposto che le parole erano tratte dagli scritti di un loro missionario. Credevo che si trattasse di padre Ezechiele Ramin, ma quel ragazzo mi ha corretta: era un missionario, ma non sacerdote, ovvero il giovane laico Luciano Bottan. Avevamo appena ascoltato una sua preghiera, messa in musica da Erika Boschiero.

Un giovane mi ha risposto che le parole erano tratte dagli scritti di un loro missionario. Credevo che si trattasse di padre Ezechiele Ramin, ma quel ragazzo mi ha corretta: era un missionario, ma non sacerdote, ovvero il giovane laico Luciano Bottan. Avevamo appena ascoltato una sua preghiera, messa in musica da Erika Boschiero.

Ho subito ricordato: avevo visto il libro su di lui, ma l’avevo snobbato perché c’era la solita e, mi si lasci affermare, retorica espressione di “santo della porta accanto”, quando invece quel giovane non cammina più accanto a noi. È morto, precisamente il 20 ottobre 2000, in Ciad, a causa di un incidente automobilistico.

A un’altra ragazza, che mi era stata indicata dal don e con la quale avrei voluto parlare più a lungo, ho promesso che appena tornata a casa l’avrei comprato, visto che ora Luciano c’entra anche con me. Penso però che mi convenga aspettare dopo il 20 di questo mese, quando riapriranno i distributori librari.

Intanto, anche per spezzare un po’ il racconto, eccovi La Canzone di Luciano.


 

4 agosto

Finalmente riconciliata

 

I giovani del mio decanato (foto mia)

Aspettavo veramente con impazienza il giorno della celebrazione penitenziale. Certo, perché non mi confessavo da due settimane, ma principalmente perché volevo, con l’occasione, trovare il coraggio di chiedere perdono esplicitamente a una persona: negli anni, infatti, avevo trasgredito il suo ordine di non occuparmi più di faccende che non mi riguardavano.

Avevo l’imbarazzo della scelta del confessore: volendo, avrei potuto andare dall’Arcivescovo medesimo, disponibile insieme ad altri ministri. Sentivo, però, che dovevo ricorrere a don Bortolo, il nostro paroliere e, ancor prima, guida spirituale: non era e non è vero, come invece avevo dato a vedere a Madrid, che per me un prete vale l’altro, soprattutto in quella circostanza. Mentalmente ho raccomandato lui e gli altri ministri a san Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato dArs, di cui quel giorno ricorreva la memoria.

Dal don ho ricevuto l’invito a prendere in considerazione i buoni consigli che potevano venire dalle persone che dimostrano di volermi veramente bene. In effetti, il giorno prima, era davanti a me e a Elena, mentre parlavo con lei verso il ristorante di Sintra.

Quanto all’altra riconciliazione, ho scoperto che la persona che mi aveva dato quell’ordine non se ne ricordava nemmeno più. È stato veramente un sollievo: ho vissuto con quel peso per quasi quindici anni, non scherzo!

Infine, sono stata molto felice di vedere i giovani del mio Decanato partecipare con attenzione a quel momento. Non li conosco molto perché ormai sono fuori dal Gruppo Giovani, ma credo di essere d’accordo con la loro guida, nello sperare che le esperienze della GMG possano aiutarli ora e per sempre.

 

La Via Crucis

 

Anche Shekinah saluta il passaggio del Papa (foto mia)

Prima della Via Crucis, per una volta, non abbiamo mangiato da Pingo Doce, ma da Jerónimo, un altro locale convenzionato; ce n’era uno vicinissimo alla stazione dei treni, dove ho preso una fetta di quiche agli spinaci e formaggio e un pastel de nata (vedi il paragrafo sotto).

Io e compagni ci siamo sistemati più o meno nello stesso punto dove abbiamo partecipato alla Messa di apertura: da lì sarebbe stato anche molto facile vedere bene il Papa. Io pensavo che non avrei avvertito nulla: ero alla mia seconda GMG con papa Francesco, l’avevo visto passare in due Udienze Generali e alle canonizzazioni del 2022, e prima, nel 2018, avevo cantato dietro di lui al Circo Massimo. Per non parlare del fatto che gli ho stretto la mano, al termine del convegno La santità oggi dello scorso ottobre, e gli ho rivolto pochissime parole di gratitudine.

Eppure, sarà stata l’atmosfera, sarà che è passato proprio mentre il coro cantava Emmanuel con le parole, Seguendo Cristo, insieme a Pietro, rinasce in noi la fede, sarà la caratura spirituale della sua figura, ma appena mi è passato davanti in papamobile mi è montata addosso un po’ di commozione: ho finito con l’abbracciare, ricambiata, una ragazza cilena che mi stava accanto!

Le sue parole sulle lacrime mi hanno fatto ripensare al pianto del giorno prima, che poi è lo stesso che mi coglie quando il fatto che io conosca molti sacerdoti viene scambiato per un attaccamento morboso. Però piango anche quando mi sembra di vivere in un paradosso che blocca la mia situazione lavorativa e vocazionale, riconoscendo che, con tutta sicurezza, mi ci sono ficcata io e nessuno riesce a tirarmene fuori.

Della celebrazione (qui le meditazioni tradotte in italiano) ricordo soprattutto le stazioni I, con il paragone tra Gesù condannato a morte e i giovani senza futuro; III, dove la solitudine di Gesù nella prima caduta era resa simile a quella dei giovani che aspettano segni di vicinanza; IV, dove la meditazione aiutava a immaginare che la Madonna, incrociando il Figlio sulla via dolorosa, l’avesse incoraggiato ad andare avanti.

Infine, ho passato quasi tutto il tempo del ritorno canticchiando This I Believe, successo del gruppo cristiano Hillsong, eseguita in quella circostanza dal cantante Salvador Seixas.


 

Testimoniando gourmet: i pasteis de nata

 

Forse il più buono che abbia mangiato (foto mia)

Una felice costante dei miei giorni portoghesi, ma anche prima e dopo l’intero viaggio, sono stati i pasteis de nata. Per quanti non li conoscessero, li descriverei così: un nido di pasta sfoglia che contiene un cuore di crema pasticcera leggermente flambée.

Ho mangiato il primissimo pastel (così al singolare) a Porto, ma conservo un magnifico ricordo di quello preso, ancora tiepido, alla sede di Fábrica da Nata a Sintra. Lì ho imparato che i pasteis fanno parte di quei dolci conventuali nati dagli avanzi di cucina, usciti dai conventi e dai monasteri dopo la chiusura degli stessi, avvenuta a causa della Rivoluzione Liberale del 1820. Per certi versi, quindi, sono imparentati con la sfogliatella napoletana, soprattutto quella riccia.


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