Padre Daniele da Samarate: in missione con il fuoco dello Spirito Santo
Padre Daniele appoggiato all’altare della sua casetta nel lebbrosario; fotografia del 25 marzo 1924, venticinquesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale (fonte) |
Felice Rossini nacque a San Macario, frazione di Samarate, in provincia di Varese (al tempo di Milano) e diocesi di Milano, il 15 giugno 1876, figlio di Pasquale Rossini e Giovanna Paccioretti, contadini. Nel 1880 si trasferì con la famiglia in una casa all’ingresso di Samarate. Frequentò la parrocchia della SS. Trinità a Samarate, il cui parroco, don Virginio Civati, selezionò lui e altri quattro ragazzi per insegnare loro a leggere e scrivere.
A
quattordici anni domandò di entrare nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini,
forse perché aveva conosciuti alcuni di quei religiosi che venivano al suo
paese per aiutare nelle Confessioni. Iniziò il noviziato il 23 giugno 1891 nel
convento di Lovere: vestì il saio cappuccino e assunse il nuovo nome di fra
Daniele da San Macario, anche se in seguito si sarebbe firmato “Daniele da
Samarate”. Il 24 giugno 1892 emise i voti semplici e, il 2 luglio 1896, quelli
solenni.
Frequentò gli studi teologici nel convento del Sacro Cuore a Milano. Era al terzo anno quando arrivò in visita padre Rinaldo da Paullo, superiore della missione dei Cappuccini nel Nord Est del Brasile: il racconto della vita missionaria che udì lo coinvolse a tal punto da chiedere di essere destinato proprio in quelle terre.
L’8 agosto 1898 ricevette il crocifisso missionario nella chiesa del convento del Sacro Cuore. Giunse in Brasile, precisamente nel Ceará, il 22 settembre 1898. Il 2 ottobre seguente fu ordinato diacono, mentre il 19 marzo 1899 divenne sacerdote.
Nel 1900 fu destinato alla colonia agricola di Sant’Antonio do Prata, nello Stato del Pará: a partire dall’anno successivo ne fu responsabile, occupandosi degli indios e istruendoli sul piano religioso e lavorativo.
Nel
1909, tuttavia, cominciò ad avvertire sintomi che i medici brasiliani non
riuscivano a ricondurre a una malattia precisa. I superiori decisero quindi di
rimandarlo in Italia: con l’occasione, padre Daniele fece tappa al santuario di
Lourdes. Quando il vescovo che guidava la processione eucaristica tracciò su di
lui il segno della Croce con l’Ostensorio, sentì una voce interiore: non
sarebbe guarito, ma avrebbe vissuto la malattia per dare gloria a Dio.
Tornò
in Brasile, ma dal gennaio 1913 divennero più evidenti i segni della malattia:
senza più dubbi, si trattava di lebbra, contratta mentre assisteva un malato.
Dopo un breve periodo ad Anil, il 27 aprile 1914 entrò nel lebbrosario di
Tucunduba: viveva in una casetta soprannominata “Ritiro di San Francesco”,
lontano dai suoi confratelli.
Anche a
Tucunduba padre Daniele fece del suo meglio: migliorò la situazione precaria
sul piano religioso e morale, educò i figli dei lebbrosi, celebrò matrimoni tra
di essi. Mentre la lebbra avanzava, lui benediceva Dio, lodandolo per ogni
cosa.
Nel
1924 la malattia giunse al culmine: ormai padre Daniele non aveva quasi più le
dita delle mani, era cieco e parlava con un filo di voce. Si preparò
serenamente alla morte, che giunse il 19 maggio 1924. I suoi confratelli lo
piansero, ma lo considerarono anche un “martire” per la sua scelta di carità.
Il
processo diocesano della sua causa di beatificazione e canonizzazione fu però
avviato per il riconoscimento dell’eroicità delle virtù: si svolse a Belém dal
14 settembre 1994 al 30 agosto 1997; parallelamente si svolse il processo
rogatoriale a Milano, aperto il 6 agosto 1996 e concluso il 19 marzo 1997.
Il 23
marzo 2017 papa Francesco autorizzò la promulgazione del decreto sulle virtù
eroiche di padre Daniele, i cui resti mortali riposano dal 12 luglio 1970 nella
chiesa del Sacro Cuore a Milano, in viale Piave 2, nella cappella a sinistra
dell’ingresso. Parte delle sue spoglie, però, è rimasta in Brasile: dal 1997 si
trova in una cappella della chiesa di San Francesco a Belém.
Cosa c’entra con
me?
Penso che la mia scoperta di fra Daniele sia avvenuta come per altre storie di credenti esemplari della mia diocesi, a cui era dedicata una rubrica sulle pagine di Milano Sette che aspettavo veramente con impazienza: “Santi di casa nostra”, a firma di monsignor Ennio Apeciti. Precisamente, le quattro puntate su di lui sono state pubblicate nei numeri del 9, 16, 23 e 30 ottobre 2011.
In
realtà l’avevo già incontrato, passando in viale Piave, ma gli avevo inconsapevolmente
dato le spalle: la sua tomba, insieme a quelle di altri due frati morti di
lebbra e suoi confratelli della stessa missione, padre Ignazio da Ispra e padre
Marcellino da Cusano Milanino, si trova di fronte a quella di fra Cecilio Maria
da Costa Serina (qui il mio post su di lui).
Di
certo nel 2017, anno del decreto sulle virtù, avevo i santini con scritto
“Servo di Dio”, quindi dovevo averli presi prima. Proprio in quell’anno mi sono
decisa a conoscerlo meglio, ma, come mi accade spessissimo, la biografia che ho
preso in viale Piave (e quella volta mi sono fermata a pregare anche sulla sua
tomba) è rimasta per anni a prendere polvere.
In
verità, me ne sono servita per capire il contesto storico di quello che nella
storiografia cappuccina è noto come il “massacro di Alto Alegre”, a cui facevo
cenno qui e nel quale morì anche padre Rinaldo da Paullo, citato sopra.
Mi pare
di averla consultata anche quando ho scoperto che padre Giampietro da Sesto San
Giovanni, superiore della missione del Pará, era diventato Venerabile pure lui:
ho ottenuto il permesso di dare risalto a quella notizia anche sul nostro sito diocesano.
Il mese
scorso, tramite la segreteria del Gruppo Shekinah, coro di cui faccio parte, ho
appreso che ci sarebbe stato un concerto-meditazione proprio a Samarate. Non mi
è scattato subito il collegamento con il centenario di padre Daniele, ma me ne
sono accorta quando ho iniziato a pensare che quella potesse essere l’occasione
buona per scrivere di lui qui.
Ho
quindi cercato di capire se le comunità cristiane del suo paese lo avessero
ricordato: proprio allora mi sono accorta sia del centenario, sia che il
concerto era alla vigilia del giorno esatto dei cent’anni dalla morte e,
infine, che il 19 maggio di quest’anno era la domenica di Pentecoste.
Per
prepararmi meglio al concerto, quindi, ho preso il libro dallo scaffale dove si
trovava, dedicando alla lettura quasi ogni momento libero. Questo mi ha
permesso di calarmi con efficacia nella Samarate di fine Ottocento, nei sogni
del giovane frate e nei suoi primi passi nel ministero.
Mi è
venuto però da pensare che alcune pratiche dei missionari cappuccini oggi
appaiono inattuabili perché non tenevano conto dell’ambiente e della cultura
indigena. Ho riconosciuto, comunque, che sarebbe un errore giudicarle con uno
sguardo contemporaneo: allora i frati ritenevano giusto operare in quel modo.
Le pagine
sull’inizio della malattia scorrevano a un ritmo incalzante: sono rimasta
colpita specialmente da quelle sul viaggio a Lourdes e sulla scelta di tornare
in Brasile, non di farsi curare in Europa. Anche se si sottoponeva a visite e
sapeva che, a certe condizioni, sarebbe anche potuto guarire, preferiva aiutare
gli altri lebbrosi a vivere più umanamente e più cristianamente, anche a costo
di patire sofferenze morali mai provate prima, come dichiarò lui stesso.
A tal
proposito, non avevo mai pensato a lui come educatore: anche in quel caso, non
credo che oggi i missionari userebbero gli stessi suoi mezzi, ma ne condividono
la sostanza, ovvero la trasmissione del Vangelo per risollevare la dignità
umana.
Le mie
conoscenze precedenti mi avevano già fatto notare i legami nella Comunione dei
Santi tra lui e altri confratelli cappuccini avviati anche loro verso gli
altari, ma anche tra due esponenti della santità laicale ambrosiana che sento a
me affini.
Il
Venerabile padre Giampietro da Sesto San Giovanni fu suo superiore in Brasile
dal 1903 e fino alla morte; fra Cecilio, Venerabile anche lui, voleva partire
per aiutarlo e ribadì la richiesta quando si trattò di sostituirlo (rimase a
Milano ed ebbe l’onore di trasportare le sue spoglie in occasione della
traslazione); padre Alberto Beretta, Venerabile da meno di un anno, non è stato
missionario proprio nei suoi stessi luoghi né era suo contemporaneo, ma
sicuramente l’ha avuto presente nella scelta di partire come religioso e come
medico.
È
accertato, poi, che l’immagine di padre Daniele, ricavata da una delle sue
ultime foto ed esposta nella portineria del convento del Sacro Cuore, abbia
destato grande impressione sia nel Venerabile Marcello Candia, sia in santa
Gianna Beretta Molla, sorella del già citato padre Alberto.
Il
primo ha poi avuto a che fare direttamente con i lebbrosi nelle opere che da
lui fondate a Macapá, mentre mi viene da immaginare che la seconda, se la sua
vita non avesse preso una svolta dopo l’incontro col suo futuro marito (ma la
storia dei Santi non si fa con i “se”), avrebbe volentieri proceduto a curarli,
consapevole di toccare il corpo di Cristo nelle loro carni doloranti, come
scrisse in un appunto sulla professione del medico.
Oltre a
questi, mi piace pensare a quelle volte in cui padre Daniele, nel suo diario,
ringrazia sant’Antonio di Padova, patrono della colonia agricola, e alla sua
figliolanza con san Francesco d’Assisi: a lui era intitolato il “ritiro”, ossia
la casupola dove viveva isolato nel lebbrosario; inoltre, ogni anno faceva di
tutto per ottenere l’indulgenza del Perdono di Assisi.
Poco
dopo aver scoperto del centenario, ho proposto al direttore di Milano Sette
e del Portale della diocesi di Milano un articolo a riguardo, interpellando
qualcuno a Samarate, anche in vista dell’arrivo dell’arcivescovo monsignor
Mario Delpini per la Messa solenne di oggi.
Ottenuto
il suo benestare, ho contattato don Antonio Giovannini, che risiede a San
Macario e si sente affine a padre Daniele per l’impegno a favore di quelli che
nessuno vuole: nel suo caso, i migranti stranieri, che, fatte le debite
proporzioni, sono a volte visti come lebbrosi. Avevo un limite di spazio da
rispettare, ma spero di aver raccontato l’essenziale.
Il suo Vangelo
Con la sua vita, padre Daniele ha mostrato come sia possibile lodare Dio anche in situazioni umanamente incomprensibili: una missione tra popoli lontani, una terra dove confrontarsi con le autorità civili a volte anche in modo aspro, dei confratelli provati da fallimenti e tragedie, fino alla prova per lui definitiva, arrivata sotto la forma della lebbra.
Ai
confratelli sembrava che lui non si lamentasse mai dei propri dolori, comunque
annotati nelle agendine che formano il suo diario. Gli dispiaceva solo non
avere abbastanza forze per celebrare la Messa e per non poter soccorrere gli infelici
in mezzo ai quali si trovava a vivere. Eppure, proprio negli ultimi anni, le
sue note sono punteggiate di espressioni di lode a Dio: nel latino
ecclesiastico, nell’italiano sua lingua madre, ma anche in portoghese
brasiliano.
Anche
il compito di cappellano fra i lebbrosi fu da lui portato avanti tra molte
difficoltà: i comportamenti a volte ribelli dei malati, la degradazione morale,
il disinteresse da parte della società civile. Finché ne ebbe le forze, cercò
di porre rimedio, sostenuto da coloro che, più che servitori, erano diventati
la sua nuova famiglia.
Mentre il suo corpo non poteva essere equiparato a un cadavere solo perché, sebbene a fatica, respirava ancora, il suo cuore aveva ancora la capacità di amare chi, compatibilmente con le esigenze sanitarie, gli stava accanto o chi gli stava alla larga e magari lo calunniava pure.
Sentiva quindi che veniva esaudita la breve
preghiera contenuta nella nota scritta il 15 ottobre 1921, quando, già cieco,
andava gradualmente perdendo la voce:
Durante la
mia vita, ho parlato anche troppo; non è male che adesso sia ridotto al
silenzio, benché forzato. Sopporterò contento questa prova per riparare le
molte parole inutili, offensive e peccaminose che ho detto durante la mia vita.
O mio Dio, accendetemi con il fuoco del Vostro amore divino.
Quell’amore,
dono dello Spirito Santo, è ciò che più di ogni altra cosa rende padre Daniele
un esempio da ammirare, una gloria del suo Ordine religioso, un concittadino di
cui andare fieri (termine che a monsignor Delpini piace molto; chissà se lo
pronuncerà a suo riguardo, nella Messa che concluderà il centenario).
Per saperne di più
Quasi tutti i libri su padre Daniele sono curati dal vicepostulatore per l’Italia della sua causa.
Claudio Todeschini, Padre Daniele da Samarate – Missionario e lebbroso per amore, Velar-Elledici 2014, pp. 48, € 3,50
Biografia
breve, precedente il decreto sulle virtù, ma con l’essenziale da sapere su di lui.
Claudio Todeschini, Venerabile Padre Daniele da
Samarate - Missionario e lebbroso per amore, Velar 2017, pp. 32, € 2,00.
Biografia ancora più breve ma aggiornata al decreto
sulle virtù. È esaurita per le librerie, ma forse in viale Piave ne hanno
ancora qualche copia.
Claudio Todeschini, Un frate per amico – Daniele Rossini da Samarate, Velar 2021, pp. 32, € 8,00.
Biografia
illustrata tra fumetti e foto d’epoca, per bambini dagli 8 anni in su.
Claudio Todeschini, Il profumo di una vita – Daniele da Samarate – Missionario cappuccino lebbroso fra i lebbrosi, San Paolo Edizioni 2015, pp. 304, € 17,50.
Biografia
ampia, con ottimo inquadramento storico e culturale, anche se non aggiornata
agli ultimissimi sviluppi della causa. Anche questa non è più in commercio, ma
si può richiedere alla vicepostulazione.
Marcella Giuliani (a cura di), Il fiore di Tucunduba - La
storia di padre Daniele da Samarate, Centro Ambrosiano 2024, pp. 40, €
15,00.
Libro illustrato per ragazzi, che mette in rilievo il ruolo
di educatore di padre Daniele anche per i figli dei lebbrosi.
Su Internet
Sito ufficiale della sua causa
Sezione su di lui e sul suo centenario del sito della Comunità Pastorale Maria Madre della Speranza a Samarate
Pagina
su di lui del sito del Dicastero delle Cause dei Santi, con l’iter dettagliato
della sua causa
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