Io c’ero #14: GMG 2016 a Cracovia, per celebrare la Misericordia


Foto ricevuta via WhatsApp

Penultimo giorno della mia GMG 2016, quando ho riscoperto cosa significhi davvero saper rendere grazie e camminare insieme, anche tra le inevitabili arrabbiature, ma ho pure maturato nuovi interrogativi.

* * *

Sabato 30 luglio – Il mio grazie a Tomas e famiglia

Più che qualcosa d’italiano,
era qualcosa di ambrosiano!
Dopo la sera di venerdì, terminata con un momento canterino, mi sono svegliata di umore decisamente migliore, determinatissima ad affrontare il percorso verso il Campus Misericordiae, luogo della veglia.
Purtroppo bisognava anche dare l’addio alla villa dov’eravamo ospitati – dimenticavo: eravamo in tutto 90 persone, compresi i giovani e gli accompagnatori di altre tre parrocchie del Decanato Navigli – e alla famiglia che ci aveva accolti. Precisamente, se ricordo bene, era così composta: oltre a Tomas, suo padre, presidente del consiglio comunale di Gdów, sua moglie, sua sorella col marito e la figlia Bibi (una bambina sui due o tre anni) e una signora anziana di cui non rammento il grado di parentela.
Nelle cose da portare ci era stato ricordato di prendere qualcosa da lasciare a chi ci doveva ricevere e che fosse tipicamente italiano. Qualcuno ha estratto dallo zaino delle cibarie, ma io avevo in serbo altro, come avevo preannunciato: un Rosario di quelli che faccio io, con i colori della bandiera polacca e, sulla crocera, l’immagine del Gesù Misericordioso di santa Faustina. In aggiunta, un santino con un’icona di sant’Ambrogio e uno con la Madonnina del Duomo di Milano.
Quando poi mi si è presentata davanti la famiglia al gran completo, con tanto di costumi tipici, mi è parso scortese consegnare solo quel pensierino. Così, dando fondo alla mia scorta di Rosari sempre fatti a mano, ne ho regalato uno a ciascun membro, lasciando a Tomas il pacchetto che avevo preparato da casa. Avevo anche un braccialetto per la piccola Bibi, che sua madre ha apprezzato tantissimo, aggiungendo che l’anno prossimo andrà all’asilo in un istituto cattolico e sicuramente le insegneranno ad usarlo. In cambio ho ricevuto un koraly, ossia una collana che non è composta di corallo, sebbene il termine possa trarre in inganno, bensì di grosse perle di legno. L’hanno ricevuta anche i nostri don, accettandola solo per questioni di cortesia, suppongo.

Pregando e salutando, verso il Campus Misericordiae

Dopo la foto di gruppo e il saluto, ci siamo mossi per andare a prendere il nostro autobus di linea che ci avrebbe abbreviato di parecchio il cammino. Avevo pensato di alleggerire il mio bagaglio, lasciando tutto quello che mi era di peso nella valigia rimasta nel bus, ma avevo dimenticato il cambio per l’indomani, durante il ritorno.
Dalla parte opposta porta dei pallini
per tenere il conto delle preghiere

(fonte: sito ufficiale internazionale della GMG)
Da un certo punto in poi abbiamo proseguito a piedi, incrociando vari gruppi, italiani ma non solo, lungo la strada. Tanto per cambiare, mi sono ritrovata a fare il fanalino di coda, stavolta insieme a uno dei preti accompagnatori. Ammetto di essere rimasta piacevolmente sorpresa quando mi ha suggerito di pregare il Rosario usando il braccialetto di gomma fornito col kit del pellegrino polacco: effettivamente, mi è risultato molto meno pesante marciare verso il campo.
Man mano che ci avvicinavamo, siamo passati anche per una strada con alcune abitazioni, quasi tutte con piccoli punti di ristoro dotati di acqua o limonata. Qualcuno, poi, ci ha letteralmente annaffiati con tubi collegati all’impianto idrico.
Quando il terreno ha lasciato il posto all’asfalto, ho iniziato a camminare meno speditamente, riuscendo comunque a tenere il passo. All’improvviso ho intravisto alcuni miei compagni del Gruppo Shekinah e, dopo pochi metri, il resto del coro, che ho salutato senza fermarmi mentre mi cantava: «Una di noi! Emilia una di noi!». 
Mancava davvero pochissimo all’arrivo nel settore F1, cui eravamo destinati, quando mi sono ritrovata a faccia in giù: devo essere inciampata in qualche pietra. Non ho avuto nemmeno il tempo di rendermene conto, che qualcuno del gruppo dietro il mio mi ha tirata su prendendomi per le braccia. È stato l’unico momento in cui sono venuta meno, fatto incredibile data la mia scarsa predisposizione alla fatica fisica.



Accampamento e… sonnellino

Tutto sommato si stava bene.
Contrariamente a quanto mi aspettavo, siamo rientrati proprio nel settore che ci era stato assegnato. Qualcuno dei miei compagni maschi, lungo il tragitto, si era procurato dei rami per costruire, adoperando anche i teli blu compresi nel kit italiano (mai più senza!), delle rudimentali capanne, prontamente smantellate dai volontari più zelanti.
Dal canto mio, ho aperto il mio ombrellino e, dopo averci legato vicino la bandiera italiana inclusa anch’essa nel kit tricolore, ho pensato bene di mettermi a dormire. Tutto questo dopo aver steso a mia volta il mio telo e aver aperto lo zainetto che conteneva le vivande per il pranzo e la cena di sabato e la prima colazione di domenica. La zuppa alle verdure era davvero la peggiore che avessi mai assaggiato in quei giorni; tuttavia, con moltissima fatica, l’ho finita impiegandoci un tempo lunghissimo.

Un po’ di Lodi a Cracovia

Forse per effetto di quella sbobba, ma anche per la stanchezza, ricordo di aver dormito almeno tre ore di fila. Al mio risveglio ho mangiato una barretta ai cereali per merenda, poi ho iniziato a guardarmi intorno. Di fronte a me avevo un gruppo del Rinnovamento dello Spirito Santo, composto da giovani nativi del Napoletano o comunque del Sud. Dietro, una decina di giovani polacchi, che avevano protestato per il nostro tentativo di guadagnare spazio.
Più a sinistra, invece, c’erano alcuni ragazzi la cui bandiera portava scritto il nome della città di Lodi. Li avevo già scorti mentre camminavo, domandandomi se ci fosse qualche Figlia dell’Oratorio con loro. La risposta era davanti a me, incarnata in una signora coi capelli bianchi, una polo azzurra e una gonna blu. Al collo portava la croce del kit italiano, quindi avrei potuto anche sbagliarmi, ma era proprio una figlia spirituale di san Vincenzo Grossi, suor Claudia, residente a Pizzighettone.
Ho come l’impressione di averla rintronata con le mie chiacchiere, raccontandole il mio legame col suo fondatore e l’amicizia con una sua giovane consorella; vorrà dire che le ho concesso di vivere l’opera di misericordia che suggerisce di sopportare pazientemente le persone moleste!
I miei preti erano ancora una volta stupefatti di fronte alla mia conoscenza di istituti, congregazioni e simili, ma non appena uno di essi ha aperto bocca per consigliarmi di non stare troppo addosso alla povera suora l’ho frenato, dandogli in mano un santino coi cenni storici di san Vincenzo (ancora qualificato come Beato), parte del mio arsenale d’immaginette da distribuire alla bisogna.
Mi ero da poco congedata da suor Claudia, quando ho notato un certo movimento nel gruppetto lodigiano: aveva fatto la sua comparsa monsignor Maurizio Malvestiti, il loro vescovo. Non intendevo farmelo scappare, così ho atteso che si prestasse a selfie e foto di gruppo coi suoi diocesani per presentarmi. Appena gli ho riferito di essere milanese ho notato in lui un lieve disappunto, mitigato dal fatto che comunque lui ha dichiarato di conoscere bene il mio arcivescovo e i suoi ausiliari e li stima molto.

La veglia

Il tempo di cenare, poi è iniziata la veglia vera e propria. Le nostre radioline sono state l’unico oggetto del kit che sia risultato praticamente inutile: la frequenza saltava continuamente, quindi abbiamo dovuto metter mano ai telefonini e sintonizzarci. Non ce n’è stato praticamente bisogno, tranne che per le testimonianze dei giovani intervenuti.
Stava andando tutto a meraviglia, quando le parole di papa Francesco, per la seconda volta, mi hanno messa di fronte alla necessità di dover cambiare vita:

Foto ricevuta via WhatsApp
Il tempo che oggi stiamo vivendo non ha bisogno di giovani-divano, ma di giovani con le scarpe, meglio ancora, con gli scarponcini calzati. Questo tempo accetta solo giocatori titolari in campo, non c’è posto per riserve. Il mondo di oggi vi chiede di essere protagonisti della storia perché la vita è bella sempre che vogliamo viverla, sempre che vogliamo lasciare un’impronta. La storia oggi ci chiede di difendere la nostra dignità e non lasciare che siano altri a decidere il nostro futuro. No! Noi dobbiamo decidere il nostro futuro, voi il vostro futuro! Il Signore, come a Pentecoste, vuole realizzare uno dei più grandi miracoli che possiamo sperimentare: far sì che le tue mani, le mie mani, le nostre mani si trasformino in segni di riconciliazione, di comunione, di creazione. Egli vuole le tue mani per continuare a costruire il mondo di oggi. Vuole costruirlo con te. E tu, cosa rispondi? Cosa rispondi, tu? Sì o no?


Il malumore che credevo di aver allontanato si è di nuovo fatto avanti, ma ho faticato non poco per controllarmi. Mi sentivo di nuovo esasperata perché non riesco a far parte di quei giovani che s’impegnano seriamente per costruire un mondo rinnovato, o meglio, perché credo di farlo stando comodamente seduta – sul divano solo quando sto poco bene – a scrivere profili biografici e post che leggono in pochissimi.
Ho dato silenziosamente sfogo alle lacrime, mentre uno strano doloretto mi prendeva all’ascella sinistra. Non era altro che un’irritazione dovuta allo sfregamento dello zaino, ma tanto mi è bastato per distrarmi dalla preghiera, sebbene per poco. Riconcentrandomi, ho chiesto a Gesù solennemente esposto nell’Ostensorio di poter accettare quello che lui vorrà per me, in modo da lasciare davvero la mia impronta.
Il nostro seminarista Charles, intanto, sgranava il suo Rosario restando immobile. Mi domandavo perché lo facesse col Santissimo esposto e non capivo cosa stesse cantando il coro sul palco papale. Le due preghiere erano collegate: si stava recitando la Coroncina della Divina Misericordia in canto, e io l’avevo capito arrivata alla quarta decina!

Incontri eucaristico-notturni

La veglia si era da poco conclusa, ma io volevo già trovare un momento di confronto col mio don dell’oratorio. Insieme siamo giunti alla conclusione che io ho effettivamente delle possibilità per cambiare me stessa e il mondo: ad esempio, potrei collaborare al doposcuola, in modo da favorire l’integrazione dei ragazzi stranieri nel mio quartiere. Che io scelga di aderire o meno, ho ricevuto un altro compito: imparare a volermi più bene, il che non consiste nel curare di più il mio abbigliamento o il mio aspetto fisico (riconosco di aver già fatto progressi), bensì nel ricordarmi di continuo che Dio vuole che io viva pienamente e serenamente.
Avevo ancora qualche inquietudine, ma ho deciso di portarla davanti al Signore, entrando in una delle tende eucaristiche, non molto lontana dal mio accampamento. C’era ben poco silenzio, ma ho provato a farlo dentro di me, riassumendo in preghiera quello che avevo compreso in quei giorni.
Ecco, era vestita così (fonte)
Tra le suore che curavano lo spazio di preghiera ce n’era una con un velo molto singolare: tra l’altro, ho notato che molte congregazioni polacche ne portano di strani, almeno ai nostri occhi. Se la memoria non m’ingannava, era del tutto identica a quelle anziane religiose che si erano affacciate dalla loro Casa madre per veder passare i giovani verso il parco di Błonia. Da un cartello che avevo letto di sfuggita, le avevo riconosciute come le Ancelle del Sacro Cuore di Gesù, che hanno come fondatori san Józef Sebastian Pelczar e la Beata Clara (al secolo Ludwika) Szczęsna. Non avrei mai saputo di loro se non mi fossi decisa ad aggiornare la scheda di quest’ultima.
Finita la mia meditazione, ho fatto cenno alla suora di seguirmi fuori, mentre pregavo i suoi fondatori che mi agevolassero il dialogo con lei: qualcosa mi diceva che non parlasse inglese o francese, mentre io, come ho già detto, di polacco so poco o nulla. Così era, ma ho trovato subito un interprete in un giovane in abito talare, appostato fuori dalla tenda. Avevo indovinato: suor Teresita, così si chiamava, era un’Ancella del Sacro Cuore e sembrava felice che mi fossi interessata alla sua cofondatrice. Per chiedere materiale mi ha suggerito di rivolgermi alla loro casa a Roma, che funge anche da punto di ritrovo per i pellegrini polacchi.
Il giovane con la veste, invece, si chiamava don Kazimierz, ordinato sacerdote proprio alcuni mesi prima dal cardinal Dziwisz, quindi diocesano di Cracovia. Con lui c’era un diacono, di cui però non mi sono annotata il nome. Purtroppo non avevo con me la mia solita scorta di santini o rosari, visto che l’avevo lasciata nello zaino. In compenso, nel Diario del pellegrino su cui mi ero messa a scrivere avevo collocato un’immaginetta – stavolta aggiornata – di san Vincenzo Grossi, per darla inizialmente a uno dei miei preti. Penso comunque di aver fatto bene a darla a don Kazimierz, non solo per far crescere la fama di santità del personaggio fuori dall’Italia e dall’America Latina, ma anche perché trovasse in lui un ispiratore nelle scelte del ministero.
Orientandomi a fatica e scavalcando qualche pellegrino già addormentato, sono riuscita a tornare alla base. Nonostante la pennichella pomeridiana, ho preso sonno quasi subito, mentre guardavo le stelle e mi sentivo protetta, una volta di più, dalla misericordia divina.

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