Massimiliano Infante: un segno e un tempo dedicati a Dio

La copertina della biografia di Massimiliano
Chi è?

Massimiliano Infante è nato a Torino il 30 marzo 1970, nella notte tra Pasqua e il Lunedì dell’Angelo, primogenito di Enzo Infante e Nunziata (detta Anna) Albanese, seguito da Barbara, Gabriella e Sandra.

Ha frequentato la parrocchia di Santa Maria Goretti a Torino, inserendosi come catechista, educatore e ministro straordinario dell’Eucaristia, sia nella sua comunità d’origine, sia in quella, confinante, di Sant’Ermenegildo. Negli anni universitari è stato volontario in Bosnia Erzegovina con l’associazione Mir I Dobro, per attività caritative in sostegno alla popolazione colpita dalla guerra.

Dopo la laurea in Economia e Commercio e alcune esperienze lavorative (prima in Banca Sella, poi direttore amministrativo e responsabile della sicurezza dell’azienda di trasporti dei fratelli Bodda), è entrato nel Seminario diocesano di Torino: nel settembre 2005 ha iniziato l’anno propedeutico nella sede di viale Thovez, passando, l’anno successivo, in quella di via Lanfranchi, per il Quadriennio teologico.

Ha svolto esperienze pastorali nella Comunità Pastorale di San Mauro Torinese. Nel corso del periodo formativo, cercava di svolgere ogni cosa al meglio, ottenendo anche valutazioni molto buone negli esami. Il 14 dicembre 2008 è stato ammesso tra i candidati al diaconato e al presbiterato.

Il 23 ottobre 2009, studente di III Teologia, ha cominciato ad avere problemi di salute: lesioni sulle gambe, febbri e dolori. Tre giorni dopo, il 26 ottobre 2009, in seguito agli esami del sangue, gli è stata diagnosticata una leucemia mieloide acuta.

Ricoverato all’ospedale Le Molinette di Torino, ha subito due trapianti di midollo osseo, risultati inefficaci. Per tentare una nuova terapia, è poi stato trasferito alla Clinica San Raffaele di Milano, ma anche il trapianto tentato lì non ha avuto esito positivo. Ai compagni, ai comparrocchiani e ai superiori, coi quali era in contatto telefonico, riferiva la fatica nel vivere la malattia ma, allo stesso tempo, la certezza di non sentirsi abbandonato.

Il cappellano del San Raffaele ha ottenuto il permesso speciale di lasciare sul comodino della sua stanza un’Ostia consacrata, contenuta in una teca. Quando ormai era in agonia, Massimiliano teneva nella mano destra quella stessa teca, mentre sull’altra erano posate le mani dei suoi familiari. Tra le dita della sinistra, la madre gli aveva intrecciato una corona del Rosario benedetta dal Papa.

È morto alle 23.40 del 3 settembre 2010, a quarant’anni compiuti. I suoi resti mortali riposano presso il cimitero di Brione, frazione di Val della Torre.

 

Cosa c’entra con me?

 

Venerdì 3 settembre 2010 mi trovavo nella Casa generalizia delle Suore Marcelline di Milano, perché mi avevano invitata alla prima professione di una di loro, suor Moira. Alla celebrazione era seguito un rinfresco, durante il quale, non ricordo come né perché, ho attaccato bottone con una suora Ausiliatrice delle Anime del Purgatorio, all’epoca residente a Genova (non ho annotato il suo nome e neppure lo rammento).

Dopo averle raccontato come avessi conosciuto le Marcelline e come, nella biografia del loro fondatore avessi visto menzionare il seminarista Alessandro Galimberti – scusatemi se riparlo di lui, ma stavolta credo sia più necessario che mai, altrimenti non si capisce lo sviluppo successivo – e come mi fossi appassionata alla sua vicenda, la suora mi suggerì di chiedere la sua intercessione per un seminarista di sua conoscenza, ricoverato al San Raffaele, in fin di vita per una leucemia.

Se da una parte pensavo dentro di me: «Oh no, di nuovo!», dall’altra sentivo di non dover venire meno a quella richiesta. Dato che il nome è importante, anche biblicamente, domandai come si chiamasse quel seminarista: Massimiliano, mi rispose. Per una prudenza che forse potrebbe sembrare eccessiva, non ricorsi all’intercessione specifica di Alessandro: preferii invocare genericamente tutti i seminaristi in Cielo.

Circa verso le 20.30, salutai le Marcelline e la mia interlocutrice, dirigendomi alle prove del coro nella mia parrocchia di nascita. Nei giorni successivi non dimenticai Massimiliano, anzi: cominciai a chiedere a tutte le suore che conoscevo di pregare per lui. Il 6 settembre scrissi anche alle Suore di Betania del Sacro Cuore, in quanto specialiste nella preghiera per i sacerdoti e per gli aspiranti tali.

Quattro giorni dopo, la suora con cui ero in contatto mi rispose che aveva letto la mia richiesta di preghiera quando ormai quel seminarista era morto. Rimasi molto abbattuta, essenzialmente per una ragione: avrei potuto andarlo a trovare e conoscerlo, come invece non mi era successo con Alessandro.

Quasi un mese dopo, vidi che tra gli ultimi profili inseriti su santiebeati.it ce n’era uno intitolato «Massimiliano Infante – Seminarista». Ebbi come un presentimento, che nel giro di un click divenne conferma: era colui per il quale mi era stato chiesto di pregare. Non l’avevo potuto incontrare, ma almeno lo vedevo in volto.

Mi commosse leggere il particolare della morte col Santissimo in una mano e il Rosario nell’altra, ma un altro elemento mi fece rabbrividire: Massimiliano era morto lo stesso giorno in cui mi avevano detto di lui.

Il 29 ottobre salvai quella stessa pagina in formato PDF e, non accontentandomi di quelle note biografiche, volli cercare di saperne di più. Trovai sul sito della diocesi di Torino l’omelia dell’allora Arcivescovo, il cardinal Severino Poletto, dove riscontrai un altro dettaglio: mentre promettevo di tenerlo nelle mie preghiere, lui era già in agonia, anzi, sarebbe morto circa tre ore e mezza dopo.

Dopo il sito della diocesi, provai a vedere se ci fosse qualcosa su Il tesoro nel campo, il blog collettivo lanciato dal Seminario di Torino, ma non curato dai soli seminaristi. Peraltro, era una bella esperienza, purtroppo durata poco, che mi faceva rosicare un po’: all’epoca, infatti, il sito del Seminario di Milano era veramente penoso.

Insomma, lessi le testimonianze del vicerettore e di due compagni, che davvero lo consideravano un fratello, al di là di certa retorica seminaristica. Mi commossero molto, specialmente perché trovavo molte analogie col percorso di Alessandro, anche se sapevo di non dover livellare le loro esperienze di vita.

Conclusa la tesi di laurea specialistica, proseguii con le ricerche. Avevo già scritto al parroco di Santa Maria Goretti, ma senza risposta. Decisi quindi di ricorrere al Rettore del Seminario di Torino, don Ennio Bossù: in particolare, mi sarebbe piaciuto tanto ricevere qualche immagine-ricordo di Massimiliano.

A entrambi riferii le mie prime impressioni. Pensavo, tuttavia, che l’originalità di Max – avevo finito per usare il diminutivo anche per lui – risiedesse soprattutto nella conclusione della sua vita: sarebbe bello, scrissi al parroco, che ogni sacerdote vivesse come lui era morto.

Il 13 marzo 2011, don Bossù mi rispose, promettendomi che il giorno dopo mi avrebbe fatto spedire quanto avevo richiesto. Il 31 marzo mi arrivò una piccola busta, che conteneva cinque ricordini.

Di nuovo, rimasi sbalordita: nella foto, Max era ritratto con il camice bianco liturgico, mentre proclamava non so che passo della Scrittura (oggi so che era una fotografia del 2009, scattata nel Duomo di Torino). Anche nell’immagine scelta per il ricordino funebre di Alessandro la posa era molto simile.

Sentivo che era come se il Signore volesse rammentarmi il primato della Sua Parola sulle tante parole che gli uomini pronunciano, mediante due personaggi che avrebbero potuto compiere così tanto bene se fossero diventati sacerdoti. Oggi, invece penso che entrambi stessero cercando di far risuonare la Parola non solo nelle chiese dove passavano, ma nelle loro stesse persone.

Pochi giorni dopo l’8 settembre 2012, giorno in cui mi decisi ad aprire un profilo Facebook, la stessa persona che mi aveva incalzata a farlo mi suggerì di chiedere l’amicizia a un tale Stefano Bertoldini: era lo stesso di cui avevo letto una delle testimonianze, da poco sacerdote.

Gli scrissi quattro giorni dopo, ricevendo una risposta quasi immediata e, soprattutto, uno degli scritti di Max, Il malato e lo specchio, pubblicato su La Voce del Popolo, il settimanale della diocesi di Torino, nel febbraio 2009.

Di nuovo, trovavo consonanze con l’esperienza di Alessandro, ma con leggere discrepanze: quando quest’ultimo scrisse una riflessione (quindi non un testo destinato alla pubblicazione) per la Giornata del Malato 2003, era un «sano malato», come diceva lui, da almeno quattro anni. L’altro, invece, compose quel pezzo nel dicembre 2008, dopo il pellegrinaggio diocesano a Lourdes; le prime avvisaglie della leucemia comparvero il 23 ottobre dell’anno seguente.

Ho portato con me entrambi, o meglio, le loro immagini-ricordo, nel pellegrinaggio della mia diocesi a Lourdes, nel settembre 2012. Il 19, durante la Messa internazionale presieduta dal cardinal Angelo Scola, come raccontavo qui, fui invitata a portare le offerte. Prima di affidare il mio zaino ai miei vicini di posto, presi le immagini e le posi nella tasca interna della mia giacca a vento, all’altezza del cuore: così, volevo idealmente offrire di nuovo i due seminaristi a Dio, rinnovando quanto ero sicura che avessero fatto in vita.

Andai poi all’ufficio preposto per far celebrare una Messa per Max, lasciando ovviamente una congrua offerta. Il 20 settembre lo riferii a don Stefano, al quale, intanto, non erano sfuggite le stesse analogie che mi avevano colpita.

L’anno successivo, cominciai a pensare a uno schema per la Via Crucis in cui ogni stazione fosse abbinata alla storia di un seminarista o di un sacerdote morto entro i primi dieci anni dall’ordinazione. Alla fine, produssi due sussidi, sia perché mi venne in mente di usare sia le stazioni tradizionali sia quelle bibliche, sia perché mi dispiaceva lasciare fuori altre vicende che volevo presentare, compresa quella di Massimiliano.

Il punto era che non sapevo quale stazione associargli. Rileggendo il testo per la Giornata del Malato, pensai che la stazione più adatta a lui fosse la quarta dello schema biblico, ossia Gesù flagellato e coronato di spine.

Mentre cercavo altro materiale, trovai e salvai, il 30 giugno 2013, due giornalini dell’associazione Mir i Dobro, che però non sono più online. Lì iniziai a intuire gli aspetti più particolari del suo percorso, ossia di come preghiera e carità gli servirono per discernere la vocazione al sacerdozio.

Negli anni successivi, il ricordo di Massimiliano non è svanito in me. Mi sono dispiaciuta al sapere della morte di don Ennio Bossù: sentivo di aver perso un collegamento che avrebbe potuto aiutarmi a far conoscere la storia di Max.

Quando poi ho sentito dell’ordinazione di don Salvatore Mellone, ho iniziato a chiedermi se anche per lui non si fosse pensato a qualcosa del genere. Del resto, Torino aveva avuto il precedente di don Cesare Bisognin, pure più giovane sia anagraficamente, sia quanto ad anni di studio.

Tre giorni fa, il 31 agosto, il don del mio oratorio mi ha scritto via WhatsApp per chiedermi di procurargli un’edizione elegante della Lettera enciclica Laudato si’ da regalare a una coppia di sposi. Avevo già un’idea di quale scegliere, però ho voluto verificare se l’editrice Elledici non ne avesse una che magari contenesse qualche fotografia di paesaggi o elementi naturalistici.

Sono andata sul sito, ma l’edizione dell’enciclica non faceva al caso mio. Navigando in maniera un po’ confusa, sono finita nella sezione Libreria online: nella prima pagina c’erano le ultime uscite. Sono quasi saltata sul divano dov’ero seduta: non avevo saputo, prima d’allora, che era stata preparata una biografia corposa di Massimiliano. Non solo: la sinossi del libro mi ha rammentato che oggi cadevano i dieci anni dalla sua morte.

Quasi non ho dormito la notte, al pensiero che dovevo assolutamente procurarmela prima del 3 settembre, così da poterne scrivere in tempo. Contribuiva a non farmi prendere sonno anche una forma di rimorso: sono stata a Torino proprio lunedì scorso per visitare il Museo Egizio e, magari, qualche chiesa di passaggio.

Ho pregato davanti ai resti mortali del Beato Pier Giorgio Frassati e ho pensato a quando ho partecipato all’ordinazione sacerdotale di don Lorenzo Nacheli e dei suoi primi compagni sacerdoti del Sermig, in quello stesso luogo; Max, però, non mi era affatto venuto in mente.

Alle 9.34 dell’indomani ho chiamato la Elledici, per essere messa in contatto con l’Ufficio Stampa, sperando in una copia saggio per recensione. La mia richiesta è stata accolta, ma ho dovuto mandare anche una e-mail per spiegare bene le mie ragioni. Alle 17.56 mi è arrivata la risposta: il libro era stato spedito via corriere espresso. Intanto, mi sono messa a controllare i link alle pagine web che mi ero segnata dieci anni fa: nessuna di quelle pagine è ancora visibile, tranne il profilo di santiebeati.

Ieri, sempre più impaziente, ho deciso di telefonare alla Curia di Torino: avevo infatti appurato che l’autore del volume, don Giuseppe Tuninetti, è il delegato vescovile per le Cause dei Santi. Dal centralino mi hanno lasciato il suo numero di cellulare, così, un minuto dopo, l’ho chiamato.

È stato davvero gentile e felice di sapere del mio interesse per Massimiliano. Neanche lui l’ha conosciuto di persona, ma ha provato un grande piacere nel mettere insieme tutte le testimonianze, comprese quelle che erano già state pubblicate e che avevo letto tempo addietro.

Proprio mentre ero sul punto di concludere la telefonata, ha suonato il citofono: era il corriere, con il pacco che attendevo. Ho lasciato perdere quello che avevo intenzione di fare e mi sono gettata nella lettura, facendo solo qualche pausa.

Il libro ha pienamente rispettato le mie aspettative: c’è una parte più strettamente biografica, ma il grosso è costituito dalle testimonianze su Max, in particolare da quelle dei suoi comparrocchiani di Santa Maria Goretti e di Sant’Ermenegildo.

Ho riscontrato, una volta di più, che una vocazione è un dono che nasce da un’intera comunità, per la quale a Dio solo bisogna essere grati. Ho apprezzato come queste persone siano riuscite ad aver tessuto l’elogio di un loro contemporaneo, fatto che, come ha recentemente ricordato il mio Arcivescovo, di solito risulta abbastanza difficile.

Ho anche capito meglio la personalità del biografato, scoprendo che amava compiere viaggi in Paesi lontani non solo per ragioni turistiche, che gli piacevano le automobili ma non ne era schiavo, che giocava a calcetto in maniera corretta (gli amici raccontano che una volta scommisero di riuscire a fargli causare un fallo) e che aveva alcune abitudini un po’ strambe: su tutte, quella di non portare mai l’orologio con l’ora esatta, perché sosteneva che il tempo fosse qualcosa di relativo.

Ho riscontrato i suoi legami con molte realtà ecclesiali: soprattutto la Comunità Cenacolo, dove andava a trascorrere le sere dei primi sabati del mese in preghiera, ma anche il Sermig e il suo Capodanno alternativo, più la stessa associazione per cui era volontario, con la quale si fermò più volte a Medjugorje (ma visitò anche santuari mariani veri e propri, oltre a Lourdes).

Ho poi compreso che il suo rapporto con l’Eucaristia è stato solo sigillato da quella scelta del cappellano del San Raffaele. Gli amici delle sue parrocchie riferiscono che, durante i campi estivi, insegnava ai ragazzi a stare davanti al Santissimo Sacramento per ore e che, per evitare che si distraessero, faceva depositare loro cellulari e orologi prima d’iniziare la preghiera. In più, molti ricordano che aveva un modo tutto particolare di dare la Comunione, guardando negli occhi e sorridendo a chi aveva di fronte: non fu istituito accolito né lettore, ma era comunque ministro straordinario.

Quanto all’ordinazione diaconale e sacerdotale anticipata, il precedente di don Bisognin era ben presente, ma in questo caso non si è proceduto, perché ormai le sue condizioni erano molto gravi. Ecco un altro elemento che avvicina Max e Alessandro, ma anche il forlimpopolese Andrea Zambianchi e l’inglese di Birmingham Andrew Robinson, per citare solo i casi di cui ho trattato qui sul blog (Giampiero Morettini, invece, fa leggermente eccezione).

C’è poi un particolare che ho scoperto di avere in comune con lui: non festeggiava l’onomastico nella data che ci si aspetterebbe (e che mi aveva riferito anche don Bossù), ossia il 12 marzo, memoria di san Massimiliano martire a Tebessa.

Da bambino lo festeggiava il 29 ottobre, data in cui viene ricordato, in alcuni luoghi, san Massimiliano vescovo di Lorch (che però il Martirologio Romano ricorda il 12 ottobre). Quando fu canonizzato padre Massimiliano Maria Kolbe, riferì ai familiari che, da allora in poi, avrebbe adottato come data dell’onomastico il 14 agosto, giorno della nascita al Cielo di quest’ultimo Santo.

 

Il suo Vangelo

 

Nel tempo della sua vita, Massimiliano ha cercato instancabilmente il Signore e ha trasmesso a quanti incontrava quello che aveva imparato di lui, anzitutto tramite i suoi familiari. La vita parrocchiale l’ha messo in contatto con bambini e giovani, ma anche con le difficoltà di popolazioni neanche troppo lontane.

Più volte ha affermato che la spinta per decidersi per il sacerdozio gli è venuta guardando i volti dei bambini orfani bosniaci e di tutte quelle persone colpite dalla guerra. I suoi compagni hanno assicurato che, anche negli anni della formazione, preferiva stare vicino a quelli che venivano evitati, compresi alcuni studenti di origine africana.

Quando poi la leucemia è comparsa, lui ha capito che doveva vivere per primo quanto aveva scritto pochi mesi addietro, in un momento in cui mai si sarebbe immaginato di dover fare i conti con la sofferenza fisica, col distacco dal Seminario, con i limiti della propria condizione:

Se è capace di lasciarsi trasformare da Gesù, che è venuto per guarire i malati e donare la salute, il malato può trasformarsi in un dono grande.

Può aiutare un giovane ad accendere una luce vera e duratura nella propria vita. Può accompagnarlo per comprendere che c’è una certezza che va oltre la provvisorietà, che c’è Qualcuno che ancora oggi parla e chiama.

Può diventare un precursore, una voce che sa raggiungere le zone più intime della sua anima e sa indirizzare verso i lidi sicuri di chi è Amore.

Come ha ripetuto più volte il cardinal Poletto, anche negli anni successivi, Massimiliano è stato un segno della presenza di Dio, fino all’ultimo istante della sua vita. Vorrei che lo fossero anche i diaconi che questo sabato, nel mio Duomo, verranno ordinati sacerdoti, ai quali dedico questo post.

 

Per saperne di più

 

Giuseppe Tuninetti, Massimiliano Infante – Una vita bella, una morte esemplare, Elledici 2020, pp. 256, € 14,00.

La storia di Massimiliano, raccontata in un profilo e nelle testimonianze di chi lo ha conosciuto.

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