Don Cesare Bisognin: vale la pena di essere preti

Chi è?


Mi scuso per l’infima qualità della foto,
ma l’ho scansionata dalla copertina del libretto
Don Cesare, prete a 19 anni,
di don Gianni Sangalli (Elledici 1985)
Cesare Bisognin nacque a Torino il 6 giugno 1956, primogenito di Andrea e Agnese Frigeni. Crebbe nel contesto profondamente religioso della sua famiglia e si formò nell’oratorio della sua parrocchia, SS. Pietro e Paolo a Torino, nel quartiere di San Salvario. Terminate le scuole medie, il 5 ottobre 1970 entrò nella comunità ginnasiale del Seminario Minore della diocesi di Torino e studiò alle Magistrali. Il 7 ottobre 1974 passò a frequentare i corsi teologici presso il Seminario Maggiore.
Già da un mese circa, tuttavia, aveva cominciato ad avvertire un forte dolore al ginocchio sinistro e si sottopose, dopo aver cercato di resistere, ad alcuni accertamenti. Volle leggere lui stesso il risultato degli esami: aveva un osteosarcoma al terzo inferiore del femore sinistro. Pellegrino a Lourdes e a Roma nell’Anno Santo 1975, continuò a tenersi in contatto con il Seminario e coi giovani della sua parrocchia.
L’arcivescovo di Torino, il cardinal Michele Pellegrino, dopo alcune iniziali resistenze, comprese di doverlo ordinare sacerdote, chiedendo la dispensa speciale direttamente a papa Paolo VI. Tra la Settimana Santa e l’Ottava di Pasqua del 1976 il giovane fu istituito lettore e accolito e ordinato diacono. Domenica 4 aprile, in casa sua, fu ordinato sacerdote dal cardinal Pellegrino.
Don Cesare morì ventiquattro giorni dopo, il 28 aprile. I suoi resti mortali riposano da allora presso il Cimitero Monumentale di Torino.

Cosa c’entra con me?

Credo sia accaduto proprio dieci anni fa, di questi tempi, quando ho sentito per la prima volta parlare di don Cesare.
Non era passato molto da quando le suore Figlie di San Giuseppe di Rivalba m’indicarono, sull’annuale poster dei candidati al sacerdozio della mia diocesi, il volto di Alessandro Galimberti e il suo nome accompagnato da una croce, il segnale che già nei periodi di guerra indicava un seminarista morto prima dell’ordinazione.
Ogni volta che chiedevo alle suore di sapere qualcosa di più su di lui, loro si commuovevano profondamente e rimpiangevano che non gli fosse accaduto quel che era stato concesso a un giovane che alcune di loro avevano conosciuto trent’anni prima, quand’erano di servizio a Torino. Non rammento con esattezza quando mi dissero il nome di quel ragazzo, ma la reazione che ho avuto sì: prima di allora, non avevo mai sentito di sacerdoti ordinati con dispensa e nemmeno di quel caso particolare.
Nel 2007, mentre iniziavo a indagare su Alessandro, mi venne naturale cercare anche don Cesare; evidentemente, mi ero appuntata da qualche parte come si chiamasse. Come spesso accade, santiebeati mi è stato d’aiuto, svelandomi che, a dispetto del nome, conteneva anche una nutrita serie di articoli dedicati ai Testimoni senza processo canonico. Avevo anche scoperto che esisteva una sua biografia, Testimone per sempre, a firma di don Pier Giuseppe Accornero: non ho perso tempo per procurarmela, e meno male, visto che, poco più di un anno dopo, finì fuori catalogo.
Penso che sia stata la prima volta che ho ipotizzato che certi libri dovrebbero essere venduti con i fazzoletti di carta come omaggio: mi si è formato un groppo in gola di dimensioni notevoli. Si è sciolto solo quando ho preso coscienza del compito che mi era prospettato davanti: non far smarrire le storie di personaggi simili, visto che, essendo una donna, non potevo entrare in Seminario e far sì che, nel mio sacerdozio, rivivesse il loro, interrotto o mai realizzato.
La corrispondenza con il professor Paolo Risso e la prosecuzione delle mie ricerche mi ha permesso di scoprire che quel giovane non è stato il solo ad avere quella speciale concessione, specie negli anni ’70 del secolo scorso. L’eccezionalità del caso sta comunque in due fattori: la giovanissima età e il fatto che avesse appena cominciato la I Teologia. Tutti gli altri di cui sono venuta a conoscenza, anche quello del precedente più immediato, sono di seminaristi più avanti di lui negli studi, almeno al terzo anno. Purtroppo, mi sono anche resa conto che di lui non si ricordava quasi nessuno, fatte salve le mie suore e qualche altra persona in là con gli anni.
Eppure, ogni tanto, mi è capitato di vederlo riemergere dall’oblio. Ad esempio, nel mese di novembre 2014, sulla rivista del Seminario di Milano La Fiaccola, era presente l’abituale inserto di preghiera, che nel corso degli anni è stato affidato spesso a comunità di claustrali. Per quell’anno il compito era stato affidato alle Clarisse del monastero di San Quirico ad Assisi: fatto strano, dato che le monache scelte sono state, almeno da quando leggo io la rivista, scelte sempre tra quelle residenti nella diocesi ambrosiana.
Arrivata alla pagina centrale, che ospita l’inserto, mi si è illuminato il viso: non solo era presentato un brevissimo profilo di don Cesare, ma anche la preghiera più famosa di Alessandro, Barattolo di nardo. Mi sembrava che, in un certo senso, il cerchio si chiudesse: dopotutto, è stato quando ho visto che avevano parlato di entrambi sulla rivista Fiaccolina che ho cominciato a frequentare il Segretariato per il Seminario.
In verità, mi era pure tornato alla mente quanto mi avevano scritto qualche anno fa i coniugi Rimlinger, responsabili del Cercle International Karl Leisner: la vicenda di quel Beato martire tedesco, anche lui ordinato in circostanze inconsuete, in Italia è conosciuta e portata avanti da alcune Clarisse di Assisi.
Ho scritto quindi alle monache di San Quirico, ma la risposta non è stata quella che aspettavo: semplicemente, l’incaricata di realizzare lo schema di preghiera mi ha spiegato il legame tra il monastero e la diocesi ambrosiana e che lei, semplicemente, aveva associato due testimonianze relative alla vita in Seminario. Eppure avrebbe potuto sceglierne tante altre: personalmente, mi piace supporre che non sia stato un caso.
Spesso, poi, ripensando all’intervista televisiva che fece conoscere don Cesare al grande pubblico e per la quale è ancora oggi ricordato, mi sono domandata più volte cosa sarebbe successo se si fosse nuovamente verificato, in Italia, un caso del genere. Ho avuto la risposta proprio un anno fa, quando ho saputo di don Salvatore Mellone: non pochi commentatori, su varie pagine Facebook, hanno associato quel sacerdote di Barletta al suo confratello torinese.
Sembra, in ogni caso, che l’anniversario della sua morte sia stato colto da qualcun altro, non solo da me, per rinverdirne la memoria: l’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, l’ha citato lo scorso giovedì 24 marzo nell’omelia della Messa Crismale, parlando di anniversari significativi di ordinazione di personaggi importanti nella storia della diocesi.
A dirla tutta, non molto tempo fa ho avuto la possibilità di avvicinare, in un suo passaggio milanese, Ernesto Olivero, il fondatore del Sermig di Torino. Ero determinata a chiedergli se si ricordasse di don Cesare, visto che, nella biografia, è attestato che aveva organizzato il 16 maggio un incontro nella basilica di Maria Ausiliatrice dove, tra le altre cose, si citò la sua vicenda. Purtroppo, appena l’ho avuto di fronte, mi è mancata la parola.
Quando ho saputo che, in occasione dell’ordinazione dei primi tre membri sacerdoti del Sermig, tra i quali c’era il mio comparrocchiano don Lorenzo, era prevista una visita lì, ho deciso di riprovarci. Dopo aver rischiato una mezza figuraccia proprio con Ernesto, gli ho rivolto la fatidica domanda, ricevendo risposta affermativa. A quel punto, gli ho chiesto se fosse normale che io, a quasi quarant’anni di distanza, mi sia appassionata a storie simili alla sua. Non ricordo le sue esatte parole, ma la mia reazione sì: ho commentato che speravo che tanti giovani si accorgessero di quello di cui lui fu persuaso e che ho riportato nel titolo. Volgendo lo sguardo verso don Lorenzo e i suoi compagni, il mio interlocutore ha esclamato con sicurezza: «Sta già succedendo!».

Ha testimoniato la misericordia perché...

Sicuramente, nel tempo in cui gli è stato concesso di esercitare il ministero, don Cesare non è uscito di casa, salvo quando fu ricoverato l’ultima volta all’ospedale Molinette di Torino. In compenso, ha avuto moltissime occasioni di essere vicino a chi in vario modo soffriva, anche quand’era ancora in salute: ad esempio, già durante gli anni delle superiori, prestava servizio caritativo alla Casa dei Ragazzi di Bra e alla Piccola Casa della Divina Provvidenza, ossia il Cottolengo di Torino.
Quando poi si manifestò il tumore osseo, iniziò a ricevere in casa sua le visite di amici, compagni di Seminario o di oratorio – mi ha colpita molto vedere come, anche una volta ordinato, si sentisse sempre legatissimo alla sua comunità giovanile – in più di un’occasione era lui a tirare su di morale chi gli parlava. La notorietà a livello nazionale, cui giunse dopo l’intervista in televisione, gli ha poi concesso di raggiungere anche chi si trovava in una situazione simile alla sua, o in carcere, o chi affermava di avere dubbi sulla fede.
Per tutti questi motivi, penso proprio che l’opera di misericordia che più lo caratterizzi sia quella di consolare gli afflitti, me inclusa. A distanza di tempo, infatti, ammetto che molto spesso, quando venivo criticata per l’affetto che nutro verso i seminaristi e i sacerdoti e ne soffrivo, è stato ripensando alla sua storia che ho ricevuto nuovo slancio.

Il suo Vangelo 

Stavolta più che mai ho avuto il rischio d’identificare la sua esperienza unicamente con il dolore che ha provato. L’ho incasellata unicamente per comodità nella categoria “Sofferenza e malattia”, ma negli anni in cui ho letto e riletto Testimone per sempre e quando l’ho prestato a persone che potevano essere interessate, ho compreso che c’era dell’altro.
Se don Cesare non avesse dimostrato una fede limpida, pur con gli inevitabili momenti di crollo, penso che nessuno avrebbe pensato all’ordinazione anticipata. Come mi ripete fino allo sfinimento il mio direttore spirituale, un prete è anzitutto un credente che diventa prete; per estensione, vale anche per le altre vocazioni.
Nel nostro caso, si tratta di un giovane educato a credere dalla sua famiglia, dalla parrocchia e dal Seminario, maturando progressivamente nello stile di preghiera e di vicinanza al Signore. Quanto aveva appreso e vissuto gli ha quindi concesso di rispondere così al giornalista che aveva di fronte, che gli chiedeva come mai avesse accettato con entusiasmo di apparire in televisione:
Perché forse il mio compito, che è compito di ogni sacerdote, è di poter dare il coraggio, la speranza che non deve venir meno.
Più avanti, chiarì come intendesse vivere la speranza:
Se [Dio] mi ha scelto è perché vuole che sia in mezzo agli altri: il prete non è di uno, ma di Dio e Dio è di tutti, e quindi il prete è di tutti. E qui sta un po’ il dono della speranza.
Una logica stringente, che farebbe bene ricordare più spesso, insieme al binomio «Speranza e fiducia» con cui concluse il suo intervento televisivo e col quale, in fin dei conti, credo si possa sintetizzare tutta la sua esperienza di giovane credente chiamato, col sacerdozio e la prova fisica, ad assomigliare davvero al Signore.

Su Internet

Scheda biografica dell’Enciclopedia dei Santi, Beati e Testimoni
Post del blog del Servizio di Pastorale Vocazionale della diocesi di Guarda in Portogallo
Articolo della rubrica Bagliori del Bollettino Salesiano, giugno 2009
Post del blog di don Bryan W. Jerabek, sacerdote della diocesi di Birmingham in Alabama (altro non è che la traduzione in inglese della scheda biografica del primo link)
Una breve menzione sul sito della chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Torino nella pagina relativa alla storia della parrocchia

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