Terra Santa 2014 #7: a Betlemme, dove il Verbo si fa ancora carne (prima parte)
Nella foto, i cartelloni dipinti dai bambini di Betlemme |
Lunedì
11 agosto
«Così
t’ho visto / M’hai accolto»
Come dicevo nel post precedente,
siamo arrivati a Betlemme nel pomeriggio. Ad accompagnare il nostro ingresso,
qualcuno di noi ha selezionato dal proprio cellulare questo sottofondo
musicale, che presumo sia stato comune a quasi tutti i pellegrinaggi giovanili
da più di un anno a questa parte (lo propongo in una versione dal vivo):
A differenza di quanto accaduto a Gerusalemme e Nazaret, siamo stati smistati in due alloggi diversi: io, insieme a un’altra ventina di persone, sarei stata ospitata presso la “Società Antoniana”, una struttura in parte ancora adibita a casa di riposo per gli anziani e gestita dalle suore Figlie di Nostra Signora dell’Orto. Ad accoglierci, un ragazzo che sia a me sia ad altri miei compagni sembrava di aver già visto da qualche parte: Matteo, che un tempo aveva partecipato come voce recitante alle veglie diocesane in Duomo per i giovani. Se ho ben capito, si trova lì in qualità di volontario per insegnare italiano.
Come ci aveva preannunciato Elena,
la nostra guida, i giorni a Betlemme sarebbero stati organizzati così, previa
iscrizione su dei fogli appositi: al mattino, potevamo scegliere tra stare coi
bambini della parrocchia greco-cattolica (l’altro luogo dove il resto del
gruppo stava a dormire), visitare le chiese del circondario oppure aiutare in
cucina; nel pomeriggio, invece, saremmo stati tutti insieme.
Il mio interesse principale
risiedeva, come potrete facilmente intuire, nelle visite turistico-religiose,
ma non me la sentivo di compierle già dal primo giorno, considerando anche la
successiva escursione pomeridiana nel deserto di Giuda. Di conseguenza, mi sono
segnata per prima cosa nell’elenco dei volontari coi bambini, poi in quello
delle visite. Purtroppo il “gruppo-cucina” di venerdì era già al completo,
quindi mi sono nuovamente iscritta nel primo.
Martedì
12 agosto
A
disposizione dei più piccoli
Immediatamente dopo la colazione, io
e i miei compagni ci siamo diretti alla parrocchia greco-cattolica per la
preghiera d’inizio giornata e suddividerci nei gruppi a cui ci eravamo
iscritti. Per chi, come me, si sarebbe occupato dei bambini, la scansione
oraria era la seguente:
9:30-10:00 – bans e canzoncine in cerchio;
10:00-11:00 – attività musicali;
11:00-12:45 – gioco libero o
attività manuali.
Abbiamo avuto a che fare con una
ventina di bambini, d’età compresa tra i cinque e i tredici anni circa.
Personalmente, ho rispolverato quel poco che mi ricordavo di aver appreso negli
incontri di formazione come animatrice all’oratorio estivo e mi sono ripromessa
di non ripetere gli stessi errori che compivo nella mia parrocchia d’origine.
Avrei dovuto stare molto attenta per un motivo in particolare: i piccoli che
avrei avuto davanti erano già provati da un persistente stato d’allerta, quindi
urlare non avrebbe fatto altro che peggiorare la loro condizione.
Alla fine è andata molto meglio di
quel che pensassi: mi sono sgolata sì, ma per far scaricare i bambini; sono
passata da un gruppetto all’altro per aiutare un po’ tutti; ho recuperato un
minimo di abilità, maturata tra l’altro non proprio da piccolissima, nel
realizzare portachiavi con i fili di plastica o scoubidou.
14:45
– Quel che resta di Erode il Grande
Ho fatto proprio bene a sistemarmi nel “gruppo-bambini”: la visita al parco archeologico dell’Herodion mi ha lasciata quasi a pezzi. Tra le numerose salite e il clima torrido, per poco non riuscivo più a seguire le spiegazioni di Elena; tuttavia, anche grazie a un momento trascorso in un punto fresco, cioè uno dei tunnel che collegavano le varie parti di quella fortezza-palazzo, ho recuperato le forze.
Il pensiero che mi ha colta mentre
m’inerpicavo per le scalinate sconnesse è stato che i potenti della terra hanno
sempre cercato di costruire qualcosa di grosso, per intimorire i loro
sottoposti e far perdurare il loro dominio anche sui posteri. Non in modo
differente ha agito Erode, ma di quel segno della sua potenza oggi non restano
che macerie. Se intendo edificare qualcosa di sicuro per la mia vita, ho
concluso, mi conviene restare umile, sebbene a volte abbia ambizioni eccessive.
17:00
– Il deserto e la paura
Dall’Herodion ci siamo spostati,
tramite pulmini, al monastero di San Saba nel deserto di Giuda. La visita
serviva per recuperare quella, saltata per motivi di sicurezza, nel Negev, dove
tra l’altro avremmo dovuto pernottare.
Sin dai miei primi passi, sono stata
presa nuovamente da quel terribile senso di angoscia che mi aveva lasciata a
Gerusalemme, accentuato, tra l’altro, dalle numerose voragini che si aprivano
alla mia sinistra e dall’esiguo spazio dove si poteva camminare. Più di una
volta ho costretto dei miei compagni a prendermi per mano, per farmi superare
tranquillamente dei punti un po’ ostici.
Aiutata dalla meditazione suggerita
da don Bortolo, ho visto nel deserto e nei crepacci che tanto m’intimorivano
quasi un’immagine della mia vita attuale, priva di sbocchi lavorativi e piena
di ambizioni che non diventano mai concrete. Eppure, osservando bene il
paesaggio, ho notato alcuni wadi,
ossia canali temporanei che si formano quelle rare volte che piove, presso i
quali si creano alcune forme di vegetazione e gli animali possono abbeverarsi.
Ho quindi compreso di non dovermi far strappare da nulla e da nessuno, nemmeno
da me stessa, i pochi momenti di speranza che ho, perché, ancora una volta, so
che Dio è più grande delle voragini e sa Lui come colmarle.
Derive
culinarie: il paciughino al sesamo
Dal secondo giorno a Betlemme,
grazie al buon Matteo e alla solerzia delle suore, la nostra tavola a colazione
era veramente ripiena di leccornie: yogurt, latte, una deliziosa marmellata
fatta in casa (della quale non abbiamo mai capito l’effettiva composizione),
una certa crema alle nocciole tutta italiana e un curioso dolce, contenuto in
una vaschetta come quelle dei gelati.
Da quel poco che si capiva in
caratteri occidentali, si trattava di un prodotto a base di sesamo, da
accompagnare alla pita e magari a un
po’ di marmellata. L’unico problema era che risultava eccessivamente dolce,
tanto da dovermi lavare i denti di corsa. Al momento non ricordo come si
chiamasse: se troverò il nome e magari qualche ricetta, lo segnalerò.
[EDIT 3/9/2014] Grazie alla mia compagna Greta, mi sono ricordata come si chiama: halva. Ho trovato molte varianti online, ma penso che prima o poi andrò a comprarmelo in un negozio di alimentari biologici.
[EDIT 3/9/2014] Grazie alla mia compagna Greta, mi sono ricordata come si chiama: halva. Ho trovato molte varianti online, ma penso che prima o poi andrò a comprarmelo in un negozio di alimentari biologici.
Per ora mi fermo qua, anche se temo
di essere stata insolitamente breve. Il prossimo racconto, invece, credo che
sarà molto più lungo. Spero che avrete ancora la pazienza di seguirmi!
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