Cardinal Andrea Carlo Ferrari: una dichiarazione di amore e di fede in ascolto di tempi nuovi

L’immagine più diffusa del cardinal Ferrari (fonte)


Chi è?

 

Andrea Ferrari nacque il 13 agosto 1850 a Lalatta, frazione di Palanzano (che in seguito cambierà nome in Lalatta del Cardinale, in suo onore), sull’Appennino parmense. Era il primo dei quattro figli di Giuseppe Ferrari, ciabattino, e di Maddalena Longarini. Fu battezzato il giorno dopo la nascita, nella parrocchia di Pratopiano, altra frazione di Palanzano.

Il suo parroco, don Giovanni Agostini, lo ammise alla Prima Comunione a dieci anni. Ravvisando in lui i segni di una probabile vocazione al sacerdozio, suggerì ai genitori di provvedere a riguardo. Il ragazzo venne quindi inviato a Parma, presso lo zio don Pietro Ferrari, per frequentare da esterno il Seminario Vescovile; divenne interno a sedici anni.

Fu ordinato sacerdote il 19 dicembre 1873 e celebrò la Prima Messa al santuario della Madonna del Rosario di Fontanellato, che gli era caro sin dall’infanzia. Dopo alcune brevissime esperienze parrocchiali, tornò in Seminario come vicerettore e insegnante, poi come rettore.

A trentacinque anni divenne pro-vicario generale, mantenendo l’incarico finché papa Leone XIII non lo nominò vescovo di Guastalla; venne ordinato a Roma il 29 giugno 1890. Come motto per il suo stemma pastorale scelse «Tu fortitudo mea», in riferimento a Maria Immacolata.

Ad appena un anno dall’ordinazione episcopale dovette lasciare Guastalla per Como, dove non cambiò metodi: visite capillari alle parrocchie, insegnamento della catechesi, ascolto e udienza a tutti, anche a quanti erano in disaccordo con la Chiesa.

Per meriti personali, venne creato cardinale da Leone XIII il 18 maggio 1894. Tre giorni dopo, venne preconizzato arcivescovo di Milano. Iniziando il suo ministero lì, aggiunse al nome ricevuto al Battesimo quello di Carlo, in onore del Borromeo santo e suo predecessore.

Promosse gli oratori per la gioventù, favorì l’insediamento di nuove congregazioni religiose, fu attento alla diffusione della stampa cattolica, si occupò del Seminario per dargli un indirizzo unitario. Sopportò le accuse di modernismo, che complicarono i suoi rapporti col papa san Pio X, confermando la propria fedeltà al suo insegnamento.

Sul finire della prima guerra mondiale, scoprì di avere un tumore alla gola: non poteva quasi parlare e affrontò operazioni chirurgiche molto dolorose per l’epoca. Volle rimettere il mandato nelle mani di papa Benedetto XV, ma ottenne in risposta di recarsi pellegrino, un’ultima volta, a Lourdes. Morì nella sua stanza del Palazzo arcivescovile di Milano alle 17.55 del 2 febbraio 1921. Fu beatificato dal Papa san Giovanni Paolo II il 10 maggio 1987.

I suoi resti mortali sono venerati nella cattedrale di Santa Maria Nascente a Milano, ovvero il Duomo, precisamente nella navata di destra, sotto l’altare del Sacro Cuore. La sua memoria liturgica, per le diocesi di Parma, Reggio Emilia-Guastalla, Como e Milano, cade il 1° febbraio, per evitare la coincidenza, il 2, con la solennità della Presentazione del Signore.

 

Cosa c’entra con me?

 

Sento di dovere molto al cardinal Ferrari, se non altro perché la chiesa dove ho ricevuto i Sacramenti dell’Iniziazione Cristiana e che ho frequentato fino a otto anni fa, quando ho dovuto traslocare, è strettamente legata a lui. La facciata, infatti, come recita un’iscrizione, è stata completata nel 1987, anno della sua beatificazione: in questo modo veniva onorato il fatto che lui stesso aveva voluto il nuovo edificio, che doveva sostituire quello precedente, intitolato a san Rocco. Eppure, all’interno, non c’era nemmeno una sua immagine; fossi nel nuovo parroco, ci penserei.

Quando ho iniziato ad approfondire la storia della mia diocesi, ho pensato di dover, per certi versi, partire da lui. Non ricordo quando ho appurato che nel mio Duomo c’era l’urna con i suoi resti mortali e neppure quando ho saputo la data della sua memoria liturgica. Doveva essere però intorno ai miei primi anni di università e al sorgere del mio interesse per la storia della mia Diocesi e dei suoi candidati agli altari.

All’epoca, tra l’altro, seguivo alcuni corsi in un edificio in via Giuseppe Mercalli 23, che, se per l’architettura mi ricordava la mia vecchia scuola media, dall’altra parte aveva parecchie raffigurazioni dello stemma episcopale di Ferrari. Non lo sapevo ancora, ma era l’antica sede della Casa del Popolo, ossia del luogo dove dovevano essere convogliate tutte le iniziative di carità sorte a Milano durante il suo episcopato.

In quello stesso periodo ho un ricordo di essere passata in Duomo proprio un 1° febbraio. Se c’erano le sue reliquie, avevo pensato, dovevano esserci anche dei santini, per la mia collezione. Mi sono quindi infilata nella Sacrestia delle Messe, trovandomi davanti uno spettacolo inatteso: un gran numero di uomini in tuniche bianche, sotto una luce abbagliante. Niente di misticheggiante, preciso: erano semplicemente gli addetti al servizio liturgico in Duomo, ovvero i membri della Comunità San Galdino, che si stavano preparando per la Messa solenne; la luce era elettrica, ovviamente. Uno degli addetti mi ha dato quello che cercavo, anche se sono rimasta delusa: erano delle immaginette in bianco e nero. In un’altra parrocchia, poi, ne ho trovate alcune a colori.

In ogni caso, le mie visite in Duomo avevano sempre una tappa di fronte al suo altare. In particolare, mi fermavo lì quando sentivo di avere problemi con la mia comunità, o sentivo mormorare le catechiste. Parlo al passato non tanto perché, a causa dell’emergenza sanitaria, non vado più tanto spesso lì, quanto perché, da almeno tre anni, la navata destra è riservata ai turisti; chi vuol pregare davanti alle sue reliquie, o a quelle del Beato Alfredo Ildefonso Schuster, deve approfittare di qualche celebrazione.

Della sua vicenda personale, intanto, continuavo a sapere poco o nulla. Le mie frequentazioni di storie sante mi hanno però concesso di trovare tracce del suo operato soprattutto per quanto riguardava il favore che concesse a molte forme di vita consacrata.

Come giustamente fa notare monsignor Ennio Apeciti ogni volta che ne ha occasione, in quanto storico ed esperto di santità ambrosiana, il cardinale accolse a Milano i Salesiani, chiedendo loro di collocarsi nella zona della Stazione Centrale, che all’epoca era quasi in campagna.

Allo stesso modo seguì, nella stessa via dove trovarono casa i Salesiani, il consolidarsi delle Suore di Maria SS. Consolatrice. Quando però il loro fondatore, don Giuseppe Migliavacca, venne accusato di imprudenze, gli suggerì di ritirarsi dal governo dell’istituto, pur di garantirne la prosecuzione; allo stesso tempo, gli garantiva aiuto per una sistemazione dignitosa. Sentendosi consolato, don Migliavacca gli confidò che stava pensando, una volta che le suore sarebbero state in grado di camminare da sole, di passare tra i Cappuccini – aveva avuto dei trascorsi come coadiutore professo tra i Gesuiti – : divenne padre Arsenio da Trigolo, anche lui ora Beato.

Le Figlie dell’Immacolata Concezione di Buenos Aires, invece, stabilirono a Milano la sede del loro noviziato. Il Cardinale, quasi come per i Salesiani, affidò loro un compito educativo, accogliendo la richiesta del parroco di San Pietro in Sala, a cui serviva un aiuto per l’oratorio femminile. Possiamo quindi affermare che grazie a lui una ragazza di quella parrocchia, Giuseppina Micheli, identificò con le nuove religiose le suore vestite di azzurro nelle quali sognava di entrare: divenne poi suor Maria Pierina, che dal 2010 veneriamo come Beata.

Quanto alla determinazione nel fare dei laici non tanto dei sudditi, ma dei collaboratori validi, l’avevo intuita anzitutto nella scelta di dotare ogni parrocchia di un oratorio maschile e di uno femminile. Quando poi ho scoperto la vicenda di Angelo Mascherpa, ho notato la stessa consapevolezza nell’azione capillare di quelli come lui – un ex operaio, celibe, rimasto mutilato per un incidente sul lavoro – tramite il mandato di fondare, in ogni parrocchia, una sezione della Società Buona Stampa, sul modello di quella primitiva associazione che Mascherpa aveva iniziato con l’appoggio del cappuccino padre Giocondo da Vaglio.

Il centenario della sua morte, intanto, stava rischiando quasi di passarmi inosservato. Non avevo neppure contemplato la possibilità di suggerire ai collaboratori della Fondazione Oratori Milanesi, data la circostanza, di dedicare a lui l’annuale sussidio per gli educatori in uscita per la Settimana dell’Educazione (poi è andata diversamente). Me ne sono ricordata solo leggendo non ricordo più quale articolo sul centenario dell’Opera Cardinal Ferrari, che continua il suo progetto caritativo.

Sono quindi stata molto felice di vedere che la prima pagina di Milano Sette di domenica 24 gennaio era interamente dedicata a lui e di leggere, lì e sul Portale diocesano, alcuni interessanti approfondimenti: sul piano storico, come l’intervista al professor Agostino Giovagnoli e un articolo sul primo pellegrinaggio italiano in Terra Santa, e su quello spirituale, ovvero un intervento in cui monsignor Apeciti ribadisce i fondamenti dell’esemplarità del Cardinale.

Sono stata altrettanto entusiasta nell’apprendere che il Servizio per la Pastorale Liturgica ha approntato uno schema di preghiera per una veglia da tenersi nelle chiese consacrate durante il suo episcopato (anche qui, fossi nell’attuale parroco della mia parrocchia di nascita, ci farei un pensierino).

Con l’avvicinarsi del centenario, ho preso in esame un libretto pubblicato nel 1995, che avevo trovato meno di un anno fa, passando per gli uffici dell’Arcivescovado: dato che non avevo nulla di monografico su di lui, nella mia biblioteca, me lo sono accaparrata. Mi è servito per capire, come diceva il titolo, i fondamenti biblici della sua spiritualità e come li abbia tradotti nelle lettere pastorali e in tante scelte e comportamenti, compresi quelli nei periodi più sofferti della sua missione.

Come riflettevo già a riguardo del cardinal Giovanni Colombo e, ancora di più, commentando il diario dell’ultimo segretario (durante l’episcopato) del cardinal Carlo Maria Martini, leggendo di Ferrari ho avuto la conferma che fare il vescovo a Milano non è un affare facile. Si è costantemente sotto lo sguardo della società civile, mentre i nemici della Chiesa attendono solo una parola sfuggita, un atteggiamento aperto, una cautela presa per difendere i fedeli, da trasformare in pavidità, pusillanimità, opposizione al Papa di turno.

Nel suo caso, tutto questo si è riscontrato l’8 maggio 1898: mentre piazza del Duomo era sotto assedio e il generale Bava Beccaris massacrava gli insorti che protestavano per il rincaro sul prezzo del pane, l’arcivescovo era in visita pastorale ad Asso. Per mesi i giornali, anche di segno cattolico, interpretarono come una fuga la scelta di non rimandare la visita programmata.

I contrasti col Papa san Pio X non mi hanno scandalizzata troppo. Preparandomi per scrivere sul Beato Olinto Marella, avevo individuato quali fossero i criteri per identificare un modernista vero rispetto a un credente che manifestasse interesse verso gli aspetti della modernità che potessero avere agganci con l’esperienza ecclesiale.

Come spesso accade, la ragione non sta né dall’una né dall’altra parte. Oggi gli storici sentono di non dover nascondere i contrasti, ma anche di precisare come papa Sarto – che Ferrari aveva conosciuto già da vescovo di Mantova – sentisse di dover difendere le verità della fede, mentre l’altro volesse provare a tenere aperte le porte a quanti proponevano nuovi modi perché il messaggio evangelico incidesse nella società. Piuttosto, provava a interpretare la modernità: accoglieva quanto di buono poteva venire da essa, come le scoperte scientifiche, ma prendeva pure atto di come la fede desse criteri interpretativi diversi. Pio X, in tutta umiltà, ammise alcuni anni dopo di essersi sbagliato sul suo conto.

A me però piacciono anche gli aneddoti curiosi, non solo i grandi fatti storici. Ne ho trovato una serie, sul sito della parrocchia di Sant’Agnese a Olginate, relativa alle sue visite pastorali nel luogo. Il più gustoso, in tutti i sensi, riguarda due uomini della parrocchia, esperti cacciatori,  che avevano catturato alcune folaghe e avevano pensato di condividerle col comitato organizzatore della visita, perché le servissero durante il pranzo. L’arcivescovo, invece, affermò che avrebbe gradito solo un pezzo di merluzzo fritto. Il risultato fu che i parrocchiani dovettero cambiare menu, mentre i due cacciatori corsero a comprare del pesce, in tempo per il pranzo del giorno dopo!

 

Cosa c’entra con san Giuseppe?

 

Di sicuro, in qualche sua lettera pastorale o in qualche omelia, il cardinal Ferrari ha parlato di san Giuseppe, ma nel materiale che ho letto non ne ho trovato traccia. Credo, in ogni caso, di poter trovare un parallelismo tra i due nello spirito di paternità e di protezione nei confronti dei giovani.

È infatti accertato che, da arcivescovo di Milano, fu il promotore della Fondazione Oratori Milanesi, facendo in modo che gli oratori diocesani si federassero per avere, il più possibile, un cammino comune. Allo stesso modo, fece trasferire nel Palazzo arcivescovile la sede dell’Associazione Santo Stanislao, che prima aveva sede nella parrocchia di Sant’Ambrogio a Milano: voleva, infatti, che avesse un carattere più centrale che parrocchiale.

Infine, può rientrare in questa sua attenzione la promozione degli inizi della Gioventù Femminile di Azione Cattolica e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, della quale portò gli Statuti da papa Benedetto XV.

 

Il suo Vangelo

 

Il nucleo della testimonianza del cardinal Ferrari, pur non prescindendo dalle sue numerose iniziative e dalla dinamicità del suo operato, può essere identificato nell’ascolto di quanto, di positivo, poteva venire dai mutamenti in corso nella Chiesa e nel tempo in cui si trovò a vivere.

Non era un ingenuo né uno sprovveduto, ma cercava di essere equilibrato nei giudizi. Anche a lui premeva difendere la verità della fede, altrimenti non si sarebbe adoperato a tal punto per la catechesi e la predicazione al popolo, anche tramite i mezzi di comunicazione.

Conoscendo bene il suo tempo, sentiva che l’opera del sacerdote non doveva più essere limitata agli spazi abituali, anche perché, se la chiesa fosse rimasta deserta, lui non avrebbe più predicato a nessuno.

In ogni sua scelta e decisione, viveva rispettando quello che aveva promesso nel giorno dell’ordinazione episcopale. Scriveva infatti nella lettera pastorale per il venticinquesimo di episcopato:

Nella mia consacrazione mi si domandava due parole e le dissi dinanzi a Dio ed alla Chiesa: le parole Voglio e Credo, le quali in fondo sono le due proteste di amore e di fede che fece Pietro a Cristo, il Figlio del Dio vivente: Tu sai che ti amo (Mt. 16, 16; Giov, 21, 15-17); insomma fede e amore, che il Vescovo deve coltivare in sé più di tutti gli altri, anche a fine di coltivarli meglio nei figli suoi.

A questa professione di fede che è in pari tempo una dichiarazione d’amore si accompagnava l’impegno, da parte sua, a rendersi amabile. Così ha affermato monsignor Mario Delpini, durante la Messa che precedeva il giorno della memoria liturgica di questo suo Beato predecessore. È la stessa indicazione che san Paolo (le cui Lettere sono una delle radici della spiritualità di Ferrari) raccomandava ai cristiani di Efeso, per far capire che il Signore è vicino.

 

Per saperne di più

 

Attualmente non ci sono più libri in commercio sul cardinal Ferrari. Sui siti che si occupano di usato si trova ancora qualche volume di quelli usciti per la beatificazione e per il centenario del suo arrivo a Milano.

 

Su Internet

 

Come per il Beato cardinale Schuster, il Portale della diocesi di Milano manca di una sezione speciale dedicata a lui, ma ci sono pagine sparse

 

Pagina del Seminario Vescovile di Parma (il testo presente è scaricabile anche in formato libretto)

 

Pagina su di lui del sito di Villa Clerici, una delle sedi della Compagnia di San Paolo, ovvero l’Istituto Secolare che prese le mosse dalle sue indicazioni ai laici

 

Sito dell’Opera Cardinal Ferrari, erede delle sue intuizioni caritative

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