Il Padre dei poveri di Bologna – Il Beato Olinto Marella (Cammini di santità #31)
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I lettori più attenti si saranno accorti che non ho ripreso il mio articolo per il numero di settembre di Sacro Cuore VIVERE. Il motivo è semplice: il direttore ha scelto di dedicare il numero solo a storie legate all’emergenza sanitaria. Di conseguenza, il pezzo previsto è stato spostato all’anno prossimo. Proprio così: la mia collaborazione non termina con il 2020!
Invece, quello per ottobre non è sull’argomento che avevo concordato col direttore all’inizio di quest’anno. L’attualità, unita al fatto che la rivista è l’organo del santuario del Sacro Cuore di Bologna, mi ha orientata a chiedergli di potermi occupare di don Olinto Marella.
È una figura che conosco da relativamente poco tempo, ovvero da meno di cinque anni. Un documentario su di lui, visto per caso (o per Provvidenza) su Padre Pio TV, mi fece incuriosire. Solo quando è stato promulgato il decreto sull’eroicità delle sue virtù, circostanza nella quale ho dovuto aggiornare la sua scheda su santiebeati.it, mi sono accostata con più decisione alla sua vicenda.
Ammetto che è una delle più complicate che io abbia mai trattato, specie per quanto riguarda l’interesse verso il modernismo, oggi considerato una corrente ecclesiale, ma all’epoca visto come qualcosa di pericoloso (non direi tanto “eresia”; quel termine è stato inserito da un redattore, nel corpo del mio articolo. Anche il virgolettato nel paragrafo Gli anni dell’esilio è un intervento redazionale; non sono parole testuali di don Olinto).
Leggere una buona biografia, consultare il sito dell’Opera da lui fondata e confrontarmi con quelli che oggi custodiscono la sua memoria mi è servito per capire meglio le sue scelte e la sua personalità.
Mi sarebbe piaciuto essere presente alla Messa della beatificazione, ma ho deciso di restare a Milano, sia perché devo dare manforte al coro per le Cresime in parrocchia, sia per tenere da parte qualche soldo da usare nel corso del pellegrinaggio diocesano ad Assisi, per la beatificazione di Carlo Acutis (sul finale di questo post avevo promesso che ci sarei andata, dopotutto).
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Bologna, caffè Zanarini, dieci e mezza del mattino. Alcuni professori del vicino liceo Luigi Galvani stanno facendo colazione, quando vedono arrivare un loro collega. È vestito con una marsina logora e porta sul capo un cappello altrettanto malconcio. Ad un tratto, vedono che toglie quel copricapo e inizia a tenderlo agli altri avventori. «Marella è impazzito», sussurrano i professori. Quando però lo sentono parlare dei “suoi” bambini poveri, iniziano a fare a gara per riempire il cappello di spiccioli e banconote. Per la prima volta, don Olinto Giuseppe Marella, professore di filosofia, si è fatto mendicante; non per sé, ma per i piccoli di cui da anni si prende cura, dato che ormai il suo stipendio e la pensione di sua madre non bastano più. Per loro non solo mendica, ma sta cercando di costruire un futuro, come ha sempre fatto, anche nella sua città natale.
Un seminarista inquieto
Don Olinto non è nativo di Bologna, ma di Pellestrina, nella laguna veneta: lì ha visto la luce il 14 giugno 1882. I suoi genitori, Luigi, medico condotto, e Carolina De’ Bei, insegnante, sono stati i primi a fargli capire che al mondo ci sono bambini più poveri di lui e che non deve affatto disprezzarli. Un altro suo modello è lo zio paterno don Giuseppe, parroco a Chioggia. È lui ad accorgersi dell’intelligenza del nipote e a proporre ai genitori di mandarlo a Roma per studiare, anche in vista del sacerdozio.
Olinto inizia quindi il ginnasio nel Collegio Romano e, dopo aver riconosciuto di essere davvero chiamato a essere sacerdote, continua la formazione nel Seminario Maggiore dell’Apollinare. È uno studente brillante e valido, ma sente una certa inquietudine, anche a causa delle letture che compie autonomamente.
Sono anni in cui la Chiesa italiana vive fermenti e istanze relativi al maggior apporto dei credenti alla vita politica, ma anche sul piano teologico e storico. Queste tendenze, denominate “modernismo”, trovano interpreti in don Romolo Murri, anche lui allievo dell’Apollinare, e in altri sacerdoti e filosofi.
Olinto si sente a disagio rispetto alla formazione che sta ricevendo e, in più, soffre per alcuni lutti in famiglia. Chiede allora di uscire dal Seminario, ma prosegue autonomamente gli studi teologici. Viene ordinato sacerdote il 17 dicembre 1904 a Venezia.
Gli anni dell’esilio
Tornato a Pellestrina, affianca suo fratello Tullio nella fondazione del Ricreatorio popolare per i figli dei pescatori, dove bambini e bambine giocano e studiano insieme, fatto insolito per l’epoca. Grazie a quell’iniziativa, l’analfabetismo viene gradualmente debellato. In questo modo, don Olinto si fa interprete di quanto papa Leone XIII aveva insegnato nell’enciclica «Rerum Novarum».
Allo stesso tempo, però, comincia a essere guardato con sospetto: prima dal suo parroco, poi dallo stesso vescovo di Chioggia, monsignor Antonio Bassani. Gli viene ricordato che insegnare educazione fisica alle fanciulle è sconveniente, tanto più se fanno esercizio insieme ai maschi. Lui replica: “mi occupo solo di fornire ai ragazzi di Pellestrina l’istruzione morale e religiosa che permetterà loro di essere un giorno veri uomini e vere donne”.
Nel 1909, però, don Olinto viene visto in pubblico insieme con Romolo Murri, (ritenuto “eretico”) ospitato nella casa di famiglia grazie a suo fratello Tullio. Il 22 settembre, il giorno dopo, il vescovo gli comunica la sospensione “a divinis” e, otto giorni dopo, l’impossibilità di celebrare l’Eucaristia sul territorio diocesano.
Olinto potrebbe difendersi, dichiarando la sua totale obbedienza al Papa e il suo interesse per le teorie moderniste solo riguardo al campo sociale. Invece tace, scegliendo la via dell’esilio. Si arruola nell’Esercito, poi, per mantenersi, si laurea in storia e filosofia e ottiene l’abilitazione all’insegnamento. Per sedici anni passa di cattedra in cattedra, da Pola a Rieti, fino ad arrivare a Bologna, nel 1924.
Il dolore di non poter compiere ciò che un sacerdote ha di più caro, ossia la possibilità di donare i Sacramenti, è forte in lui. La sua natura orgogliosa lo porterebbe a ribellarsi, ma allo stesso tempo non sente rimorsi di coscienza. Gli sembra quasi di aver toccato il fondo, però avverte di dover pazientare ancora.
Dall’orgoglio alla carità
Il parroco di San Giovanni in Monte a Bologna, monsignor Emilio Faggioli, si accorge di lui perché partecipa quotidianamente alla Messa, prima di andare a scuola. Gli ottiene un’udienza dall’arcivescovo, il cardinal Giovanni Battista Nasalli Rocca, che lo reintegra nel ministero, incardinandolo nella sua diocesi. Il 2 febbraio 1925 celebra la Messa di nuovo, come se fosse la prima volta.
Don Olinto si getta pienamente nella nuova missione che gli ha dato l’arcivescovo. Collaborando con le Conferenze di San Vincenzo, viene a sapere che, all’estrema periferia di Bologna, c’è un intero quartiere, il “Baraccano”, dove lo squallore è tale che nemmeno il sacerdote passa di lì per la benedizione pasquale. Lui, invece, riesce ad avvicinare tutti, a cominciare dai bambini. Quando sentono il campanello della sua bicicletta, accorrono immediatamente: «C’è il Padre!», gridano festosi. Da allora, pur essendo sacerdote diocesano, don Olinto diventa Padre Marella.
La sua paternità si estende ancora di più dopo che, nel 1936, trova per strada un neonato abbandonato.
Comincia a raccogliere altri bambini e a sistemarli negli istituti cittadini, ma sa di poter fare di più. Nel 1948 ottiene dalla Nettezza Urbana di Bologna un deposito inutilizzato: diventa la prima sede della Città dei Ragazzi, poi trasferita a San Lazzaro di Savena.
Alla Città dei Ragazzi è in vigore una forma di autogoverno: i più grandi aiutano i più piccoli e hanno ruoli di responsabilità. Padre Marella è ruvido e dolce allo stesso tempo: gioca con loro, li rimprovera aspettando il loro pentimento, benedice le nozze di molti di essi, che restano a vivere nelle casette costruite apposta per loro.
Una presenza che non lascia indifferenti
Continua a insegnare fino al 1948, quando va in pensione. Non per questo resta inattivo: anzi, ha più tempo per dedicarsi alla sua singolare forma di questua. Va nei luoghi più affollati di Bologna, come l’incrocio tra le vie Caprarie e Drapperie, il mercato del pesce, l’uscita del Cinema Duse o del Teatro Comunale. Tiene in mano il suo cappello e ricompensa con una benedizione tutti quelli che gli lasciano un’offerta. Per tutta la città, la sua stessa presenza è un richiamo a non restare indifferenti di fronte alla povertà.
Col passare degli anni, il suo fisico imponente comincia ad avere cedimenti. Nel 1968 viene operato per un’ulcera, ma non si riprende mai del tutto. Si trasferisce quindi nella Città dei Ragazzi, per morire accanto a loro. Avviene proprio così alle 10.30 del 6 settembre 1969: non prima, però, di aver lasciato idealmente a un ragazzo il proprio cappello, con la promessa che non sarebbe mai rimasto vuoto.
Alcuni anni prima, aveva ricapitolato così la sua intera esistenza: «Posso dire con tutta verità che la strada della mia salvezza è stata la carità. L’orgoglio mi avrebbe perduto. La carità mi ha salvato. Dio mi ha forgiato non nella dolcezza, ma nelle prove difficili che potevano rischiare di mettere in discussione tutta la mia vita spirituale. [...]. Ed ora senza vergogna, pur essendo stato un professore di filosofia, oggi stendo il mio nero cappello di feltro per avere qualche elemosina a favore dei miei poveri. Non mi vergogno di essere “mano di Dio”, mano di carità, mano di perdono».
Don Olinto Marella viene beatificato il 4 ottobre 2020 in piazza Maggiore, nel giorno in cui Bologna ricorda san Petronio e si commemora san Francesco d’Assisi, di cui lui fu seguace non solo come membro dell’Ordine Francescano Secolare, ma anche nello stile di vita.
Originariamente pubblicato su «Sacro Cuore VIVERE» 6 (ottobre 2020), pp. 16-17 (visualizzabile qui)
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