Io c’ero #22: a Roma, per i 10 nuovi Santi (seconda parte)


Nel pellegrinaggio a Roma per la canonizzazione di Charles de Foucauld con la Pastorale Giovanile di Milano ho avuto nuovi incontri, diretti e indiretti, dal pomeriggio di sabato 14 in poi.

Col passare dei giorni, mi rendo sempre più conto di come io abbia saputo cogliere un’occasione come quella. Ecco quindi il resto del mio diario di viaggio (qui la prima parte).

Anche in questo caso, le foto sono tutte opera mia.

 

Kit kit, urrà (édition de Foucauld)

 

Non mi aspettavo che le persone convenute a Roma per lui avrebbero avuto dei segni distintivi o comunque i classici gadget che commemorano l’evento: non mi sembrava indice di sobrietà. Invece, dopo il pranzo di sabato, sorella Sara ci ha invitati a ritirare il nostro kit del pellegrino. Comprendeva:

·        una borsa shopper in tre colori (blu, grigio, vinaccia; io l’ho presa grigia)

·         un foulard o una bandana in raso (io ho avuto un foulard viola)

·         il libretto San Charles de Foucauld, fratello di tutti, del Centro Missionario Francescano delle Marche (ordinabile ai contatti presenti qui)

·         un voucher per avere una bottiglietta d’acqua a 50 centesimi all’Ancora di via della Conciliazione, che fungeva anche da punto di ritrovo per chi si fosse perso (doppiamente utile);

·         un pieghevole con gli appuntamenti prima e dopo la canonizzazione, riguardanti anche gli altri due candidati agli altari francesi, ossia san Cesare De Bus e santa Maria Rivier;

·         il pass per la celebrazione, di colore rosso.

 

Le memorie dei “nuovi martiri”

 

Attraversando il Tevere

Durante il pranzo di sabato, ma se ricordo bene l’idea era affiorata già la sera precedente, don Marco Fusi ha proposto come tappa aggiuntiva, prima dell’incontro tra giovani italiani e francesi a Santa Maria in Trastevere, la visita di San Bartolomeo all’Isola, più nota come il santuario dei “nuovi martiri” del XX e del XXI secolo.

Le virgolette sono d’obbligo per due ragioni: sia perché tra quei Testimoni ci sono alcuni cristiani ma non cattolici, sia perché molti di essi non sono ancora stati riconosciuti come martiri dalla Chiesa cattolica, oppure, perché appartenenti ad altre confessioni, non possono esserlo.

Di converso, ci sono parecchi casi in cui sono conservate memorie (termine più neutro rispetto a “reliquie”, benché, in questo caso, tali siano) di personaggi che ora veneriamo come martiri. Tra quelli con i quali sento di avere qualche legame, il Beato Jerzy Popiełuszko e sant’Oscar Romero.

Nella cappella che conserva le memorie dei “nuovi martiri” in Africa c’era però un intruso eccellente: era proprio san (al momento della visita, ancora  Beato) Charles de Foucauld. Ho ribadito, recentemente, come per la sua causa non sia stata presa in considerazione la possibilità di avviarla per dimostrare il suo martirio in odio alla fede, dopo che gli storici hanno riconosciuto che erano assenti i giusti presupposti.

Ciò non toglie che osservare la cazzuola con cui aveva costruito il fortino per sé e per i suoi fratelli tuareg, con l’immancabile cuore sormontato dalla croce inciso sul manico, abbia suscitato riflessioni in ciascuno dei partecipanti al pellegrinaggio.

Abbiamo quindi recitato i Primi Vespri della VI Domenica di Pasqua, in Rito Ambrosiano, seduti nelle ultime file della navata centrale. Mi è parso come se i Salmi parlassero di coloro che avevamo scoperto o riscoperto nelle sei cappelle della chiesa e, più in generale, descrivessero l’icona dei “nuovi martiri” custodita nell’abside della basilica.

 

A Santa Maria in Trastevere

 

Arrivati in piazza Santa Maria in Trastevere, abbiamo atteso di poter entrare nella sala parrocchiale dove si sarebbe tenuto l’incontro organizzato dalle Discepole del Vangelo. Sorella Sara Tamai ci ha preparati a scegliere un rappresentante che spiegasse il perché della nostra presenza alla canonizzazione: abbiamo eletto Filippo, uno dei quattro giovani di Como appartenenti a Casa Legami.

Quando però, a incontro iniziato, ci siamo accorti che la sua motivazione corrispondeva solo ai giovani del suo gruppetto, ho fatto cenno che volevo offrirmi per parlare in vece degli ambrosiani; dal mio aspetto, nessuno avrebbe sospettato che non sono esattamente giovane.

Filippo ha dovuto giustamente pungolarmi per dare il tempo alla traduttrice simultanea di volgere le mie parole in francese. Essenzialmente, mi sono rifatta a due motivi, cominciando da un fatto che ha costituito una scoperta interessante anche per chi conosceva davvero vita, morte, testimonianza e miracoli di fratel Charles: lui è passato per Milano il 28 agosto 1900 (ho sbagliato l’anno: eppure potevo controllare prima!), ma non si sa altro, se non che lo visse come un pellegrinaggio. Di questa notizia ringrazio infinitamente, Luca Frigerio per aver raccontato questo autentico scoop sul nostro sito diocesano e su Milano Sette.

Il secondo motivo era dovuto all’opera di almeno un paio di direttori spirituali in Seminario, che hanno parlato di lui ai loro seminaristi, i quali, una volta diventati preti, ne hanno parlato ai loro giovani. Facevo velato riferimento al cardinal Renato Corti (qui un suo contributo del 2002, proprio sul ruolo di fratel Charles nella formazione dei futuri nostri presbiteri diocesani e quali fossero, secondo l'allora vescovo di Novara, le sue intuizioni valide per la Chiesa del tempo) e a don Cristiano Passoni, che ci aveva raggiunti dalle Piccole Sorelle in mattinata (qui un suo testo pubblicato proprio in vista della canonizzazione).

 

Gli interventi dei testimoni

 

È venuto quindi l’ascolto dei testimoni coinvolti. Khodija Zahra, la donna che da una decina d’anni custodisce il fortino (“bordj”) costruito da fratel Charles a Tamanrasset, l’ha presentato come un patrimonio dell’Algeria a più livelli, compreso quello turistico. Lei, musulmana, nutre una grande gratitudine verso di lui, per quanto è riuscito a fare per il suo popolo, comprese le sue opere di conservazione della tradizione letteraria tuareg.

Due Discepole del Vangelo, sorella Silvia e sorella Pascale, vivono da qualche mese ad Algeri, ma stanno cercando di mettere in campo tutti i mezzi possibili per vivere con gli altri abitanti senza erigere barriere di sorta.

Fratel Alberto, dei Piccoli Fratelli del Sacro Cuore, che vive a Spello ma lavora ad Assisi, ha raccontato invece la sua storia di vocazione e i suoi tentativi di entrare in relazione con bambini e adulti gravemente disabili.

Ai giovani presenti è stato chiesto d’intervenire attraverso l’applicazione online Padlet: sui foglietti virtuali che man mano comparivano sulla lavagna altrettanto virtuale erano contenute le frasi che più li avevano colpiti nei vari interventi. Io ho trattenuto l’impegno di questi testimoni a curare le relazioni, proprio come faceva fratel Charles, e ad abitare con la gente, senza barriere esterne.

Per la cena, ci siamo avviati lungo via San Francesco a Ripa, per ritirare i vassoi di pizza al taglio che avevamo prenotato. Per consumarli, ci siamo sistemati sui gradini della chiesa omonima, raggiunti poi da un altro dei gruppi presenti. Mentre mangiavo, uno dei preti del nostro gruppo ha dichiarato che l’avevo strabiliato nel mio pur breve intervento. Ho ringraziato, ma allo stesso tempo ho ammesso che non era tutta farina del mio sacco.

Dopo un gelato a Trastevere e un nuovo viaggio su autobus affollatissimi, è venuta l’ora del riposo. Personalmente, ho faticato molto a prendere sonno, sia perché ero agitata di mio, sia perché avevo paura di non sentire la sveglia. Il risultato è stato che mi sono svegliata mezz’ora prima delle mie compagne di stanza e mi sa che le ho disturbate.

 

Verso San Pietro

 

Alle 6.10 circa eravamo già al capolinea dell’autobus necessario per andare a San Pietro. Uno dei nostri preti ha chiesto informazioni a due suore di passaggio, ricevendo conferma.

Mi sono a mia volta avvicinata a loro, sperando che nessun altro dei miei compagni avesse da ridire, e ho chiesto se facessero parte di qualcuno degli Istituti religiosi coinvolti. Mi hanno risposto che il futuro (ancora per poco) Santo per cui si muovevano era Lazzaro, o Devasahayam se si preferisce il nome in lingua tamil. Mi è venuto spontaneo domandare se fosse davvero così famoso in India, ricevendo risposta affermativa.

Questa volta l’autobus non era tanto pieno, così siamo riusciti a cogliere qualche sguardo di Roma mentre si svegliava. Dai palazzoni dell’Eur, con gli uffici giustamente chiusi, si passava alle prime chiese più verso il centro, mentre s’iniziavano a intravvedere i primi gruppi di pellegrini.

I cappellini dei gruppi dei Vocazionisti
Abbiamo cambiato autobus all’altezza di palazzo Venezia, arrivando all’accesso di via del Sant’Uffizio intorno alle 7.20. Era già pienissimo di pellegrini, in gran parte legati ai Vocazionisti, come dichiaravano i loro cappellini gialli. Non era però il momento di fare conversazione, ma di stare attenti al momento in cui poter accedere alla piazza.

Ci è voluta più di un’ora, tra spintoni e inviti alla calma. Mi sembrava di ripetere quello che mi era successo il giorno della beatificazione, anzi, la notte prima, di Giovanni Paolo II, quindi sapevo già cosa fare. La calca aumentava, ma mi sentivo stranamente tranquilla.

Prima di accedere alla piazza, anzi, poco dopo l’arrivo in via del Sant’Uffizio, a noi che avevamo i bagagli più grossi è stato concesso di lasciarli all’Istituto Maria Bambina, letteralmente dietro il colonnato, grazie alle conoscenze di uno dei nostri sacerdoti.

 

Due parole sugli arazzi...

 

La prima foto che ho scattato appena arrivata in piazza

Insomma, siamo entrati in piazza che erano le 9 passate. La prima cosa a cui ho pensato è stata accaparrarmi un libretto della celebrazione, per usarlo ovviamente, ma anche per tenerlo come ricordo. Ho quindi trovato posto a sedere insieme con i miei compagni, mentre i sacerdoti che si erano registrati sono andati nel punto fissato per i concelebranti.
A quel punto ho iniziato a osservare gli arazzi dei nuovi Santi. Quando avevo contato che avrebbero dovuto essere dieci, mi ero domandata come sarebbero stati sistemati. Grazie alle prime foto che circolavano in Rete, avevo appurato che ci sarebbero stati cinque arazzi effettivi, con due immagini per ciascuno, su fondo azzurro.

Tornata a casa, ho letto pesanti critiche su questa scelta. Alcuni affermavano che sembravano realizzati con scarsa cura, altri ritenevano orribile lo sfondo e li paragonavano a quelle brutte immagini-ricordo che si stampano per i defunti. Io alla fine ci ho fatto l’abitudine, se non altro perché s’intonavano con l’azzurro del cielo (meno male che il tempo era sereno).

Non so perché si sia scelta questa soluzione e se sia stata d’emergenza; del resto, si sapeva almeno dal 4 marzo scorso che i futuri Santi sarebbero stati dieci. Magari la volta prossima si potrebbe agire d’anticipo e far realizzare le immagini a gruppetti dallo stesso artista: penso a Giuseppe Antonio Lomuscio, autore di molti ritratti esposti, negli scorsi anni, sulla facciata di San Pietro, o a Raul Berzosa, i cui ritratti quasi fotorealistici sono comparsi anche sui francobolli delle Poste Vaticane.

In realtà, sfogliando il libretto per osservare bene i ritratti, mi sono accorta che quello dell’ancora per poco Beato Giustino Russolillo aveva un particolare strano. Confrontando la foto ritoccata con quella usata ad esempio sulla copertina del libro Il santo parroco di Pianura, ho riscontrato che il fondatore dei Vocazionisti non sorrideva più a denti scoperti, come nell’immagine originale.

Credo che sarebbe interessante capire con quali criteri si scelgono le immagini fotografiche e le si modificano, quando non vengono commissionate ex novo. Mi è poi venuto un dubbio, che in realtà mi ritorna a ogni canonizzazione: perché a volte i ritratti non hanno l’aureola, o a volte ce l’hanno, ma è poco più di un alone luminoso?

Ho concluso che soffermarmi su questi dettagli avrebbe contribuito a rovinarmi la festa, quindi, alla fine, non ci ho pensato più di tanto.

 

...e tre parole per i nuovi Santi

 

Come molti fedeli, ero preoccupata che papa Francesco non avrebbe presieduto la Messa. Si sarebbe tornati a quel che accadde con le ultime beatificazioni e canonizzazioni di san Giovanni Paolo II, dove lui, con un filo di voce, poté a stento pronunciare la Formula relativa, lasciando il resto al Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.

Come al solito, ho finito col dare retta a queste chiacchiere, distraendomi tanto da non capire che la Messa era bell’e che iniziata con il segno della Croce e l’invito iniziale proferito dal Santo Padre stesso.

Ho quindi seguito con più attenzione il Rito della Canonizzazione, cantando il Veni Creator Spiritus insieme alla foltissima assemblea, acclamando al futuro Santo per cui io e compagni eravamo presenti (ma io avrei voluto gridare per tutti) e ascoltando con attenzione la solenne Formula pronunciata dal Papa.

Ormai da tempo ho appurato che le sue omelie per le canonizzazioni non costituiscono un panegirico dei nuovi Santi e neppure mettono in parallelo la Parola ascoltata con aspetti delle loro vite. È una scelta e la accetto, ma a me piace ugualmente trovare degli agganci tra le letture e le vite che, col solenne rito, sono ufficialmente e definitivamente proposte come modelli per tutti i fedeli.

Ho cercato quindi tre espressioni tratte dalla Parola ascoltata che mi facessero pensare alle dieci esperienze di fede che avevo di fronte: “tribolazioni”, dalla Prima Lettura; “tenda”, dalla Seconda; “amore” dal Vangelo. Lo sviluppo della mia esposizione, se siete curiosi, è pubblicato qui.

Dell’omelia del Papa, invece, ho trattenuto essenzialmente il punto in cui ha affermato:

L’amore che riceviamo dal Signore è la forza che trasforma la nostra vita: ci dilata il cuore e ci predispone ad amare. Per questo Gesù dice – ecco il secondo aspetto – «come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». Questo così non è solo un invito a imitare l’amore di Gesù; significa che possiamo amare solo perché Lui ci ha amati, perché dona ai nostri cuori il suo stesso Spirito, lo Spirito di santità, amore che ci guarisce e ci trasforma. Per questo possiamo fare scelte e compiere gesti di amore in ogni situazione e con ogni fratello e sorella che incontriamo, perché siamo amati e abbiamo la forza di amare. Così come io sono amato, posso amare. Sempre, l’amore che io compio è unito a quello di Gesù per me: “così”. Così come Lui mi ha amato, così io posso amare. È così semplice la vita cristiana, è così semplice! Noi la rendiamo più complicata, con tante cose, ma è così semplice.

 

Carlo, ancora tu?

 

S'intravvedono le Piccole Sorelle della Consolazione

Prima della Messa, ho notato che poco dietro di me c’era un gruppo di suore biancovestite, col cuore e la croce foucauldiani al centro dell’abito, su cui spiccava una medaglia cruciforme col Santo Volto.

Ho altrettanto notato che alcune laiche presenti con loro, sedute però davanti a me, armeggiavano con dei portachiavi di stoffa, realizzati sul modello di quelle targhette per paracadute usate appunto come portachiavi: quelli in oggetto avevano da un lato il motto «Jesus Caritas», dall’altro la frase «Mon Père, je m’abandonne a Vous» («Padre mio, mi abbandono a Te»; in francese, nelle preghiere formali, si usa dare del “voi” alle sacre persone).

Pensando di procurarmene uno per ciascun partecipante, sono andata dalle suore, portandomi una scorta di Rosari di cordoncino fatti a mano da me (uno alla fine l’ho regalato a Claire, una signora che era con le suore). Quando però ho scoperto che i portachiavi avevano un prezzo fisso, sono tornata indietro per prendere il portafogli e limitarmi nella quantità.

Effettuato l’acquisto, abbiamo proceduto alle presentazioni. Le suore si chiamano Piccole Suore della Consolazione e anche loro, palesemente, s’ispirano a san Charles de Foucauld. Quando io mi sono presentata e ho detto da dove venivo, una suora ha esclamato: «Ah, Milano? Carlo Acutis!».

Sono stata felice che si fossero ricordate che lui ha vissuto principalmente qui, però non ho avuto la prontezza di ribattere che noi ambrosiani abbiamo molti ma molti altri Santi, Beati, candidati agli altari e Testimoni, come ho elencato qui.

Di lì a poco, visitando un negozio di articoli religiosi, ho invece sentito due pellegrine commentare, guardando un cassettino con delle medaglie: «Oh, c’è la medaglia con Carlo Acutis!». E una sua compagna: «Abbiamo impostato un intero anno di catechismo su di lui!».

Di nuovo, stavo rovinandomi la felicità di quei momenti pensando che a breve Carlo potrebbe comparire pure lui nella gloria del Bernini, prima ancora di tanti altri Testimoni che pure lo meriterebbero, e che non potrò fare altro che accettarlo.

Ripeto: non ce l’ho con lui come persona e non disprezzo la sua esemplarità; mi dà solo fastidio che si parli soprattutto di lui. L’hanno perfino scelto tra i patroni della GMG di Lisbona, benché sia morto prima ancora di avere l’età giusta per partecipare a una manifestazione del genere e l’unica che lui abbia seguito in modo consapevole sia stata quella di Colonia.

Mentre io ero là e rischiavo di morire di freddo, come raccontavo qui, lui era a casa e si stupiva del silenzio (ed era vero) calato sulla spianata della veglia appena papa Benedetto XVI aveva invitato i giovani ad adorare l’Eucaristia in silenzio.

Ancora una volta, quindi, mi sono mostrata invidiosa del fatto che Dio, nella sua misericordia, continui a scegliere lui e non altri per rendersi presente.

 

Da Comandini, andata e ritorno

 

Il mio bottino

Il negozio a cui facevo riferimento prima era Comandini, che gestisce articoli religiosi all’ingrosso e al dettaglio. Una vera gioia per chi, come me, cerca sempre qualcosa di nuovo da portare come ricordo e, soprattutto, deve fare approvvigionamento di materiale per Rosari fai da te.
Mi ci aveva indirizzato il mio negoziante di fiducia a Napoli: visto che non so quando potrò tornare da lui, ho colto l’occasione di seguire il suo consiglio, tanto più che il negozio era letteralmente di fronte al ristorante “Al Passetto di Borgo”, che ci era stato suggerito da un prete-studente del Seminario Lombardo, amico di uno dei sacerdoti del gruppo.

Entrata, sono rimasta a bocca aperta di fronte alla valanga di articoli disponibili. A un gentile commesso ho chiesto dove trovare le minuterie (il termine tecnico per le medagliette, le crocere e i crocifissi per Rosario), poi, armata di cestello ho iniziato a cercare quali potessero interessarmi di più, limitandomi a dieci pezzi al massimo per soggetto.

Appena arrivata alla cassa, mi è suonato il telefono: era don Marco che mi diceva che era arrivato il primo e dovevo sbrigarmi. Ho quindi lasciato lì il mio bottino e sono tornata al ristorante, tornandoci a pranzo concluso per pagare e per riferire del consiglio del negoziante napoletano; dopo aver pagato, il titolare mi ha invitato a portargli i suoi saluti.

Quando sono uscita dal negozio, nessuno mi ha rimproverato, né mi ha chiesto spiegazioni, anche perché avevo già raccontato che mi piace confezionare Rosari per regalarli anche a qualche novello sacerdote (neanche per questo ero stata presa in giro). Proprio per questo, mi hanno invitato a realizzare una corona anche per il diacono che era con noi e che, a Dio piacendo, diverrà prete tra un paio di settimane.

 

Un furto mancato

 

Mentre tornavamo all’Istituto Maria Bambina per recuperare i bagagli, mi sono fermata a parlare con un gruppetto di Suore Cappuccine dell’Immacolata di Lourdes, provenienti proprio dalla casa madre di Cinisi (città nota per un altro suo illustre cittadino, Peppino Impastato) per riferire loro che, aiutata dalla loro postulatrice, avevo scritto per santiebeati il profilo di santa Maria di Gesù Santocanale, loro fondatrice, poco prima della sua beatificazione.

Così facendo, però, mi sono persa: è bastato telefonare a don Marco e rispondere al messaggio inviato quasi contemporaneamente da sorella Sara per rintracciarli e recuperare il mio bagaglio all’Istituto Maria Bambina.

Dopo una vera e propria sessione fotografica sullo spettacolare terrazzo dell’Istituto, abbiamo salutato i ragazzi di Como e sorella Sara. Alla fine eravamo rimasti io, tre preti, il diacono, il ragazzo milanese e il giovane professore napoletano.

Ci siamo quindi avviati verso la Stazione Termini in autobus: lì ho attaccato bottone (e ti pareva, direte voi) con una signora inglese di origini olandesi, venuta per san Tito Brandsma. In effetti, anche lui è un personaggio che m’interessa e con cui ho esili collegamenti, ma credo che mi occuperò più avanti di lui.

Prima di arrivare a Santa Maria Maggiore a piedi, uno dei ragazzi mi ha letteralmente spinta in avanti benché il semaforo per i pedoni fosse ancora rosso, provocando le grida degli altri turisti. Solo quando abbiamo attraversato la strada mi ha svelato perché: due borseggiatrici avevano preso di mira la mia valigia. È stato davvero provvidenziale, altrimenti avrei chiuso con un episodio spiacevole un viaggio così ricco di meraviglie e d’incontri.

 

Riflessioni conclusive

 

Subito dopo il ritorno delle celebrazioni con il pubblico, avevo iniziato a essere colta da pensieri pessimistici riguardo le cerimonie di beatificazione e canonizzazione: sarebbe bastato il Decreto pubblicato dalla Sala Stampa e poi, eventualmente, Messe di ringraziamento, più o meno come per la canonizzazione equipollente. In questo modo, si sarebbe avviato un percorso di sobrietà e di risparmio sulle spese che celebrazioni del genere comportano (e non mi riferisco solo alla produzione di libri e articoli vari che riguardano i personaggi).

Poi però mi sono resa conto che sarebbe stato troppo triste: l’ho appurato anche camminando per Roma e respirando, specie domenica, l’aria di festa che pervadeva le strade. La Chiesa è comunità e ha bisogno di ritrovarsi per essere felice che i propri figli siano riconosciuti come «riflessi luminosi del Signore nella storia», per riprendere un’altra espressione efficace dell’omelia di papa Francesco.

Comunemente, però, si continua a dire che il santo (con la minuscola) è un eroe capace di azioni straordinarie. Ecco perché Mario Calabresi, intervistato per il Portale della diocesi di Milano in occasione del cinquantesimo della morte di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, ha dichiarato che né lui né sua madre comprendevano quella che la giornalista intervistatrice definisce «ipotesi di beatificazione», portata avanti, per quel che so io, unicamente da don Ennio Innocenti, morto lo scorso anno, autore di un libro sottotitolato «Il santo, il martire» (alla faccia della prudenza!) e diffusore di suoi santini-ricordo.

Secondo me, bisognerebbe distinguere tra la santità vissuta qui e ora e la santità riconosciuta dalla Chiesa e vagliata attraverso lo strumento della causa: la seconda non può esistere senza la prima, anzi la presuppone. Certo, ci vogliono molte risorse, in tempo e in denaro, e sono molto più snelle ora di tanti anni fa, ma non bastano: è sempre necessario il fumus boni iuris, ossia la risposta affermativa alla domanda se porre come esempio il tale darebbe gloria a Dio e farebbe del bene alle anime e alla Chiesa.

Concordo, infine, con papa Francesco sul fatto che debba esserci una «conversione» rispetto all’idea che molti continuano ad avere sulla santità:

A volte, insistendo troppo sul nostro sforzo di compiere opere buone, abbiamo generato un ideale di santità troppo fondato su di noi, sull’eroismo personale, sulla capacità di rinuncia, sul sacrificarsi per conquistare un premio. È una visione a volte troppo pelagiana della vita, della santità. Così abbiamo fatto della santità una meta impervia, l’abbiamo separata dalla vita di tutti i giorni invece che cercarla e abbracciarla nella quotidianità, nella polvere della strada, nei travagli della vita concreta e, come diceva Teresa d’Avila alle consorelle, “tra le pentole della cucina”. Essere discepoli di Gesù e camminare sulla via della santità è anzitutto lasciarsi trasfigurare dalla potenza dell’amore di Dio. Non dimentichiamo il primato di Dio sull’io, dello Spirito sulla carne, della grazia sulle opere. A volte noi diamo più peso, più importanza all’io, alla carne e alle opere. No: il primato di Dio sull’io, il primato dello Spirito sulla carne, il primato della grazia sulle opere.

Gli esempi ufficialmente riconosciuti dei dieci nuovi Santi, non solo di Charles de Foucauld, e di tutti quelli che sono venuti e che verranno, stanno proprio a indicare questo.


...purché non se ne facciano dei santini (ma questi editi da Ancora non sono male)!



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