Don Angelo Bosio, un padre nello spirito per suore e parrocchiani


Ritratto di don Angelo Bosio,
basato su una stampa contemporanea
e tratto da un suo santino
Chi è?

Angelo Bosio nacque a Lovere, in provincia di Bergamo e diocesi di Brescia, il 12 marzo 1796, quarto dei sei figli di Giovanni Battista Bosio e Lucia Banzolini, di ceto benestante.
Frequentò la scuola presso la parrocchia di San Giorgio, della quale era diventato parroco, quando lui aveva quattro anni, don Rusticiano Barboglio. Il suo esempio portò Angelo a desiderare di voler diventare sacerdote.
Entrò quindi nel Seminario di Brescia, ma dovette uscirne per motivi di salute. Proseguì gli studi in famiglia, finché, dopo la morte della sorella Francesca, non rientrò. Fu ordinato sacerdote nel 1820.
Il vescovo di Brescia, monsignor Gabrio Maria Nava, lo scelse come suo segretario particolare, ma dopo due anni don Angelo domandò di potersi dedicare più intensamente al ministero sacerdotale: venne quindi destinato a Lovere, nella sua parrocchia natale, come vicario a sostegno di don Rusticiano.
Dopo un viaggio in Italia, con tappe anche a Roma e a Napoli, come accompagnatore del figlio di una ricca famiglia milanese, cominciò a essere richiesto come predicatore itinerante. Divenne anche insegnante di religione e confessore dell’educandato aperto dalle monache Clarisse. Lì conobbe una ragazza, Bartolomea Capitanio, della quale divenne il direttore spirituale.
Il 21 novembre 1832, all’altare dell’Addolorata nella chiesa di San Giorgio, don Angelo e don Rusticiano accolsero l’atto di consacrazione di Bartolomea e di Caterina Gerosa, a cui lei si era associata in un’opera educativa e caritativa nei confronti delle bambine e dei malati di Lovere.
Il 26 luglio 1833, però, Bartolomea morì. Don Angelo incoraggiò le sue compagne a continuare il loro percorso, in vista dell’effettiva costituzione in istituto religioso. A loro diede le Regole mutuate da quelle delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret.
Caterina Gerosa, eletta superiora, professò i voti col nome di suor Vincenza. Don Angelo, invece, il 7 settembre 1834 divenne “sorvegliante politico governativo”, un passo importante verso il riconoscimento giuridico dell’istituto.
Alla morte di don Rusticiano Barboglio, gli succedette come parroco di San Giorgio, compiendo l’ingresso solenne nel settembre 1840. Continuò a seguire l’istituto, promuovendo anche l’invio delle prime suore in terra di missione. Pianse, come già per Bartolomea, la morte di suor Vincenza, avvenuta il 29 giugno 1847.
Negli ultimi mesi del 1863 la salute di don Angelo peggiorò di colpo: morì quindi nella notte tra l’8 e il 9 dicembre 1863. I suoi resti mortali riposano dal 30 gennaio 1936 nella cripta del Santuario di Cristo Re dei Vergini a Lovere, meglio noto come Santuario delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa.
Le sue due figlie spirituali vennero infatti canonizzate il 18 maggio 1950, mentre il loro istituto era ormai diventato la congregazione delle Suore di Carità, poi dette di Maria Bambina. Per don Angelo, invece, la causa di beatificazione è da tempo ferma nella fase romana.

Cosa c’entra con me?

Per forza di cose, il legame tra me e don Angelo Bosio passa per la scoperta delle sante Bartolomea e Vincenza. A dire il vero, il suo era poco più che un nome, nelle piccole biografie che le Suore di Maria Bambina mi avevano fornito. Al nome si abbinò un volto, dopo la mia partecipazione al Convegno Giovani svolto proprio a Lovere nel 2007.
Non vorrei sbagliarmi, ma fu proprio lì, mentre cercavo qualche ricordino da portare a casa, che trovai una sua immaginetta: era scritto “Servo di Dio”, il che voleva dire che la sua causa era in corso.
Non ricordo quando, ma mi venne voglia di sapere di più su di lui. Le suore, invece, avevano una sorta di riserbo, che non mi sapevo spiegare. Nel 2013, con il pretesto di dedicargli un profilo biografico per santiebeati.it, riuscii a entrare in contatto con la suora storiografa della congregazione, la quale mi fornì una biografia grossa da cui attingere, a firma di Benvenuto Matteucci.
Grazie a quella lettura, compresi che non era giusto tenere in ombra la figura e la spiritualità di don Angelo. A modo suo, infatti, aveva cercato di riallacciare la relazione tra i fedeli e Dio, che rischiava di essere messa in crisi da un’ignoranza diffusa e da una durezza irrigidita, molto vicina alla corrente del giansenismo.
Con la predicazione delle missioni al popolo e degli Esercizi Spirituali, invece, lui ricordava che Dio è vicino ed è da amare, non da fuggire con terrore. Per questa ragione tendeva anche a diffondere la devozione al Sacro Cuore di Gesù e basava la sua predicazione su argomenti solidi e convincenti.
Un piccolo dettaglio mi fece pensare, ancora una volta, che nella Comunione dei Santi non esistono gradi di separazione, o comunque sono meno dei classici sei. Scrive il Matteucci, infatti (ma senza precisare l’anno esatto), che succedette, come segretario di monsignor Nava, a quel don Lodovico Pavoni che già conoscevo per essere cliente della libreria Ancora di via Larga a Milano e di cui a breve (ma non lo sapevo ancora) avrei festeggiato la canonizzazione.
Un ulteriore elemento che mi ha aiutata a comprendere la sua personalità era la consapevolezza di stare vivendo in una fase delicata della storia d’Italia e della Chiesa italiana e mondiale. Con le guerre d’indipendenza e la fine del potere temporale del Papa, divenne giustamente preoccupato per il futuro dell’istituto fondato da Bartolomea e portato avanti da suor Vincenza, ma anche per i suoi parrocchiani. Era addolorato specie per le accuse d’ingerenza alla Chiesa nell’educazione e negli ospedali, due dei servizi di carità a cui le fondatrici tenevano maggiormente. Allo stesso tempo, però, confidava in Dio.
Quanto al rapporto con le due future sante, con Bartolomea era molto più intenso. Da una parte lui moderava l’ardore con cui la ragazza voleva esprimere il suo amore a Dio e la carità che le piaceva troppo, per parafrasare una sua tipica espressione. Dall’altra, era lei a incoraggiarlo a non disperare della salvezza eterna, a dirgli di stare attento alla salute, a dargli anche qualche consiglio per il proprio cammino: tra i suoi scritti, infatti, c’è anche un Regolamento di vita per un missionario, nel senso di “predicatore delle missioni al popolo”, come faceva lui.
Mi ha fatto pensare al confronto, ancora aperto, col mio direttore spirituale. A volte vorrei fare fughe in avanti, ma lui mi frena e m’invita ad aspettare, puntando a correggermi negli aspetti che nella mia vita hanno più bisogno di conversione.
Con suor Vincenza, che tendeva a essere più in ombra rispetto all’esuberanza di Bartolomea, assunse ancora di più il ruolo di guida (le aveva un altro direttore spirituale). Favorì il contatto tra di loro e fece in modo che la più giovane collaborasse con l’altra nell’oratorio femminile che aveva aperto in casa propria. Riuscì anche ad acquistare Casa Gaia (o De Gaia) come sede dell’istituto, il “Conventino” come lo chiamavano le prime compagne e la gente di Lovere.
Proprio nei giorni del Convegno Giovani, che avevo trascorso là, ho ascoltato un aneddoto dalla suora che aveva accompagnato il gruppo a cui mi ero aggregata (è morta tre mesi fa, ma non per il coronavirus; questo post è idealmente dedicato a lei).
Secondo quanto si tramanda di suora in suora, poco dopo la morte di Bartolomea, Caterina – ricordo che è il nome di Battesimo di suor Vincenza – non voleva proseguire la sua opera. Con le valigie in mano, lasciò il Conventino. Giunta però all’incrocio tra due strade, presso una fontanella pubblica, incontrò don Angelo, le cui parole la convinsero a restare. Da allora, le Suore di Maria Bambina chiamano quel luogo “la fontana dell’obbedienza”, come memoria dell’umiltà con cui l’altra loro fondatrice accolse il volere di Dio per sé e per l’istituto nascente. È una delle tappe del Cammino delle Sante, promosso dal Comune di Lovere.
Contrariamente a quanto era scritto sul santino che avevo trovato, dal punto di vista giuridico le suore non considerano don Angelo come loro cofondatore. Non rinnegano però il compito che rivestì: non solo diede le Regole, ma le visitava e teneva conferenze spirituali. Quando comprese che la loro azione doveva espandersi anche in terra di missione, raccomandò ancora di più che fossero istruite e che sapessero anche le lingue straniere.
Quanto alla sua causa di beatificazione, la suora storiografa mi rispose che era in stallo, ma presso di loro la fama di santità di don Angelo era ancora viva. Riguardo ai segni, loro avevano più volte chiesto la sua intercessione, ma senza ottenere alcuna grazia significativa.
Due anni fa, l’uscita di una nuova biografia, basata sia sul mio articoletto sia sul volume del Matteucci, mi fece gioire moltissimo. Riferii la notizia alle suore che vivono nella mia parrocchia e a quelle che prestano servizio al Santuario di Maria Bambina: nessuna di loro ne era a conoscenza. In compenso, a ridosso della festa delle Sante a Lovere, ci fu una presentazione pubblica.
In ogni caso, sono felice che l’eredità delle Sante loveresi sia operante anche in questi tempi di pandemia. Allo stesso tempo, a settant’anni dalla loro canonizzazione, spero che i loro nomi siano un po’ più noti (ma sono da tempo scritti in Cielo, che è quel che conta di più) dopo che nel Rosario dal Policlinico Gemelli sono stati letti due passi dagli scritti di santa Bartolomea (qui, p. 11) e che il mio Arcivescovo ha citato santa Vincenza tra le donne presso la Croce, nella sua omelia del Venerdì Santo (qui, p. 37).

Il suo Vangelo

Don Angelo non è il primo parroco coinvolto in fondazioni d’istituti o congregazioni che conosco. La sua originalità risiede nella consapevolezza di essere uno strumento perché la gente della Val Camonica, che percorse nelle sue missioni al popolo, sapesse di essere amata e benedetta da Dio.
Per contribuire a rifondare la società, puntava non solo sull’efficacia della predicazione, ma anche sull’educazione dei giovani e sulla formazione dei suoi collaboratori laici. Tra di loro, molte decisero di aggregarsi a Bartolomea e Caterina per l’«istituto tutto fondato sulla carità» sognato dalla prima e che sembrava morire quasi sul nascere. Invece, anche grazie ai suoi consigli, prosperò anche al di là delle rive del lago d’Iseo.
In una delle sue conferenze, così don Angelo incoraggiava la prima comunità:

La vostra missione, o Suore di Carità, vi apre un largo campo da lavorare. Il bene spirituale e corporale dei vostri fratelli, ecco lo scopo dei vostri travagli. Voi dovete zelare la gloria di Dio, procurando di amarlo voi di tutto cuore, e farlo ancora amare dagli altri, e se fosse possibile da tutte le creature.
Spero che ogni Suora di Maria Bambina tenga presenti queste indicazioni e, magari, riscopra e rimediti gli insegnamenti di questa figura fondamentale per la congregazione di cui fa parte.

Per saperne di più

Andrea Maniglia, «Homo Dei» - Don Angelo Bosio, Tau Editrice 2018, pp. 64, € 5,00.
La biografia più recente, che in poche pagine sintetizza gli spunti della sua vita e offre riflessioni per il nostro tempo.

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